"Esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale: esso si concretizza in una forma di comunicazione onesta ed aperta, responsabile e rispettosa dell’altro" (Benedetto XVI)
Visualizzazione post con etichetta Psiche. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Psiche. Mostra tutti i post
martedì 24 aprile 2012
Se non sono vicino a me stesso
La comunicazione con Dio può aver luogo soltanto se siamo in grado di comunicare con noi stessi.
Sto leggendo "La cura dell'anima" di Anselm Grun, "L'esperienza di Dio tra fede e psicologia": approfondita intervista al noto monaco benedettino tedesco pubblicata nell'edizione italiana nella colonna Crocevia delle Paoline.
Se non sono vicino a me stesso, come posso essere vicino a Dio? - scrive Grun, che cita Cipriano di Cartagine: "Come puoi pretendere che Dio ti ascolti se tu per primo non ascolti te stesso?" E aggiunge: la conoscenza di noi stessi non ha nulla a che fare con l'egoismo, ma serve a farci incontrare Dio con tutto ciò che c'è dentro di noi.
Etichette:
Anselm Grun,
Fede,
Libri,
Psiche
venerdì 30 dicembre 2011
Ti dà fastidio avere un cuore?

Da "Il monaco e la psicanalista. In dialogo per una autentica libertà interiore", di Marie Balmary.
Ti dà fastidio avere un cuore, vero?
martedì 22 novembre 2011
Troppo diligenti

"Chi mostra di essere troppo diligente, a scuola o nella vita, in chiesa o al mercato, mostra un sintomo di scarsa vitalità" (Robert Luis Stevenson).
Sarebbe troppo lungo e troppo delicato spiegare il perché e il per come, ma questa cosa temo mi riguardi, purtroppo. Un'osservazione sottile e molto ambigua, ma ferocemente vera.
(Foto da wikipedia)
lunedì 21 giugno 2010
Bambini dentro (purtroppo)

Nelle società ricche gli adulti rimangono bambini. Non crescono. Non diventano adulti. Gli crescono i peli sotto le ascelle e anche in altri posti ancora meno fini, ma rimangono bambini dentro. (…) E quindi soffrono, perché si sentono soli, abbandonati, non curati, non difesi, non amati, non coccolati.
E’ l’assunto di partenza di un libriccino di qualche anno fa, “Alla ricerca delle coccole perdute”, di Giulio Cesare Giacobbe, un manuale divulgativo di psicologia evolutiva, lo chiama l’autore, che spiega in questo modo la diffusione, nelle società ricche, di stati d’animo quali la solitudine, l’insicurezza, l’incertezza, lo squilibrio, il disagio, il disadattamento, l’insoddisfazione, la sofferenza, la paura, l’angoscia, il panico, l’infelicità.
Il libro, come gli altri di Giacobbe, è divertente e ironico nei toni ma serissimo nei contenuti. Vi sono tre comportamenti fondamentali – scrive l'autore con riferimento all’analisi transazionale – che caratterizzano rispettivamente, negli esseri umani, il bambino, l’adulto, il genitore:
Il bambino chiede. L’adulto prende. Il genitore dà.
Così vi sono ancora tre modalità di relazione sociale caratterizzanti ciascuna ogni singola modalità:
Per il bambino: dipendenza. Per l’adulto: parità. Per il genitore: superiorità
Quindi tre modi di rapportarsi alle coccole:
Il bambino ha sempre bisogno che qualcuno gli faccia le coccole; l’adulto si fa le coccole da solo e non ha bisogno di nessuno; il genitore è l’unico capace di fare le coccole agli altri.
Ora, ognuno di noi ha dentro di sé le tre personalità e dovrebbe saperle adottare in modo intercambiabile a seconda delle situazioni che si trova a vivere. Ma il problema nasce proprio quando questo non accade: per incapacità di attivare una specifica personalità (magari perché non si è mai strutturata: non ho mai imparato a fare l’adulto) o per la coazione ad attivarne sempre una (faccio sempre il bambino: magari “camuffato” da adulto o anche da genitore).
E’ in questo caso che si può parlare di “nevrosi”. E in particolare la nevrosi infantile – sostiene l’autore – è quella più diffusa nelle società ricche: caratteristica principale, far dipendere dagli altri (o da altro) la propria felicità. Che significa essere continuamente in ricerca dell’attenzione, dell’aiuto, della protezione, dell’affetto, della dedizione, dell’amore degli altri. Con conseguente inevitabile frustrazione, delusione, lamentazione, recriminazione, scontentezza, infelicità.
Nella relazione di coppia, in particolare:
La pretesa di essere amato sempre e in esclusiva è la caratteristica saliente del nevrotico bambino
E poi la paura, la dimensione psichica abituale del nevrotico bambino, assillato da paure immaginarie (nevrosi ansioso-depressiva): la paura di non essere amato, di rimanere solo, di invecchiare, di diventare brutto, di ammalarsi, di diventare povero, di finire in un ospizio, di morire. Paura di tutto. Soprattutto del futuro (perché non essendo in grado di affrontare il presente, si immagina chissà quali difficoltà anche maggiori nel futuro).
A questo, per chi fosse curioso di verificare se appartiene o meno a questa “terribile” categoria, l’autore propone questo semplice test. Chiediti se soffri di questi stati d’animo:
INSODDISFAZIONE, INADEGUATEZZA, POSSESSIVITA’, ASPETTATIVE, DEPRESSIONE, LAMENTI, PRETESE, ACCUSE, RIFIUTI, PAURE, ANSIA.
Se ne soffri ricorrentemente o spesso o cronicamente, sei anche tu un nevrotico “bambino”!
mercoledì 12 maggio 2010
Imitatio Christi

"Dobbiamo comprendere che la imitatio Christi non significa copiare la sua vita e, se posso esprimermi così, scimmiottare le sue stigmate, ma in un senso più profondo, che dobbiamo vivere la nostra vita come egli ha vissuto la sua. Imitare la vita di Cristo non è cosa facile, ma è indicibilmente più difficile vivere la propria vita come Cristo ha vissuto la sua".
Carl Gustav Jung (I rapporti della psicoterapia con la cura d'anime, in Opere, Borlinghieri, 1979). Traggo questa citazione dal libro di Massimo Diana.
Mi viene in mente quel celebre racconto del rabbino cui fu chiesto, in punto di morte, se era pronto ad andare all'altro mondo. "Sono pronto - disse il rabbino - perchè dopo tutto non mi verrà chiesto: perché non sei stato Mosè?, ma solo: perché non sei stato te stesso?"
lunedì 10 maggio 2010
Credere alle favole

Leggere le fiabe fa bene (a chi le ascolta e a chi le legge).
Ne sono ancora più convinto dopo aver letto il bel libro di Massimo Diana La saggezza delle fiabe, edito per le Paoline, nella collana Crocevia. “Le fiabe raccontano la nostra storia – dice l’autore nell’introduzione - non parlano d’altro che degli eterni e universali conflitti che ciascuno di noi incontra nel divenire se stesso”. E ancora, le fiabe raccontano “quel percorso – una sorta di viaggio tra prove e pericoli – che ogni uomo o donna è chiamato a compiere per raggiungere la propria maturità o età adulta”. Perchè “tutti, secondo le fiabe, siamo potenzialmente degli eroi”.
Insomma, le fiabe non ci insegnano nulla di nuovo, se non quello che avevamo dimenticato di sapere.
Che la nostra vita, la vita di tutti, è un'avventura. Che nell’esistenza di ciascuno, malgrado regni spesso la confusione e il non senso, c’è invece una meta, un compito preciso. Che questa meta è una maggiore realizzazione umana (diventare noi stessi), una maggiore integrazione, spesso simboleggiata dalle nozze, da leggersi con Jung come coniunctio oppositorum.
Ancora. Le fiabe ci ricordano che questo compito, il compito della nostra realizzazione umana, che pure preme dentro di noi anche inconsciamente, è opera ardua. La coniunctio, la maturità, le nozze sono sempre un’impresa eroica e grandiosa. Ed il percorso è sempre costellato di ostacoli (draghi, streghe ma anche fratelli…). E la strada che dobbiamo fare è sempre quella verso un altro mondo (l’altra parte di noi, quella che normalmente tendiamo a non ascoltare).
Infine, e non è cosa da poco, per riuscire nel processo, nel viaggio - che conosce sempre fasi di buio pesto - bisogna credere che l'impossibile possa realizzarsi, bisogna credere alle intuizioni del cuore. Questa è una condizione imprescindibile, altrimenti il viaggio finisce prima di iniziare. E’ questa fiducia nell’impossibile che mette in moto l’eroe. E l’impossibile si manifesta attraverso le vie più bizzarre, contrarie alle evidenze del mondo. La salvezza si manifesta nei panni di un gatto con gli stivali!
Ed è così che le fiabe ci parlano della nostra vita quotidiana, della vita di tutti. Raccontandoci verità così profonde che non posson esser dette per concetti, ma solo per immagini, storie, emozioni (come fanno la poesia, il mito, la saga). Tale è, per eccellenza, il linguaggio delle fiabe – ha spiegato Massimo Diana nella presentazione del libro cui ho potuto partecipare. Un linguaggio due volte arcaico, perchè appartiene "al mondo dell'infanzia e all’infanzia del mondo" (l’epoca dell’oralità). C’è qualcosa nelle fiabe – ha spiegato - del potere curativo, performativo del sogno, dell’efficacia che viene riconosciuta al sogno dalla psicanalisi. “Le fiabe sono efficaci perchè vere e vere perchè efficaci”.
(nella foto, il gatto con gli stivali nell'immaginazione degli autori del film di animazione Shrek)
giovedì 11 marzo 2010
Al riparo

"L'uomo è destinato ad affrontare il rischio. Fallire è per lui meno dannoso che restare al riparo"
(Herbert Fritsche)
Citazione rubata ad un'amica, su Facebook. L'autore non lo conoscevo, si tratta di uno scrittore tedesco del Novecentro che si muove tra medicina, psicologia ed esoterismo.
La frase la trovo particolarmente vera in quanto rivelatrice di un'attitudine psicologica - che ahimè conosco bene - che tende a preferire, spesso inconsapevolmente, il riparo all'uscita in campo aperto, la seconda fila alla prima linea, l'illusione della certezza al timore dell'incertezza e dell'avventura.
In sostanza, per paura di perdere la propria vita, si finisce per non vivere mai, come insegna da sempre il Vangelo (Mt. 16,25: "chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà").
E' solo che infiniti sono i ripari dietro i quali l'uomo può nascondersi. Il compito di ognuno è scoprire i propri. E uscire fuori.
(foto da flickr/creativecommons/nasrlulekram)
mercoledì 9 settembre 2009
Adesso

E' necessario che ciascuno abbia un luogo in cui la vita è possibile adesso.
Ancora Luca Doninelli, sul Giornale di oggi, commenta un numero della rivista Communitas dedicato al sucidio e al male di vivere, con il titolo significativo La Malaombra.
Si parla di apocalisse culturale, di frattura profonda : E' urgente - scrive Aldo Bonomi, direttore della rivista - costruire luoghi ove chi ha nostalgia, chi ha paura, chi ha difficoltà, possa raccontare e reaccontarsi.
Mi viene in mente un libro che ho letto e che consiglio: Il pensiero che ascolta. Come uscire dalla crisi, di Maurice Bellet, prete, filosofo e psicanalista francese.
(Foto da Flickr/piccadillywilson)
lunedì 20 luglio 2009
I nostri peggiori nemici

"I nostri peggiori nemici, e quelli con cui dobbiamo combattere più di tutti, sono dentro"
(Miguel De Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)
(Foto da Wikipedia: Honoré Daumier)
Etichette:
Citazioni,
Letteratura,
Psiche
martedì 23 giugno 2009
Ricordaglielo

Quando il demonio ti ricorda il tuo passato, tu ricordagli il suo futuro
Bellissima. Letta su Vita nella rubirca di Lucio Brunelli (vaticanista del tg2), che ha sua volta la prende da un'immaginetta sacra su Facebook.
(Foto da Flickr/ideacreamanuelaPps: Luca Signorelli, Resurrezione della Carne, Orvieto)
lunedì 20 aprile 2009
Anche se Dio non esiste

"Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, anche se Dio non esiste".
La frase è di Marco Guzzi, o almeno io l'ho sentita da lui in uno degli ultimi incontri, di cui conservo gli appunti.
Significa che c'è negli uomini - indipendentemente dalla loro consapevolezza - un rispecchiamento misterioso e profondo tra le proprie visioni sulla vita e su Dio (inteso come principio ordinatore della vita) e le diverse modalità di essere un io. I pensieri (consapevoli o inconsci) che ho sul principio delle cose determinano l'uomo che sono e il mio rapporto con gli altri. Viceversa, a seconda dello stato in cui mi trovo, faccio una determinata esperienza fisica della vita e di Dio (anche se non credo in Dio, o non credo di credere...)
Esistono, cioè, teologie per lo più inconscie - ed errate - che condizionano la vita di ogni uomo, credente o non credente. Che uomo divento se credo in un Dio assente? e se credo in un Dio persecutore?
E se invece credo in un Dio che è Amore fedele e incondizionato?
La frase è di Marco Guzzi, o almeno io l'ho sentita da lui in uno degli ultimi incontri, di cui conservo gli appunti.
Significa che c'è negli uomini - indipendentemente dalla loro consapevolezza - un rispecchiamento misterioso e profondo tra le proprie visioni sulla vita e su Dio (inteso come principio ordinatore della vita) e le diverse modalità di essere un io. I pensieri (consapevoli o inconsci) che ho sul principio delle cose determinano l'uomo che sono e il mio rapporto con gli altri. Viceversa, a seconda dello stato in cui mi trovo, faccio una determinata esperienza fisica della vita e di Dio (anche se non credo in Dio, o non credo di credere...)
Esistono, cioè, teologie per lo più inconscie - ed errate - che condizionano la vita di ogni uomo, credente o non credente. Che uomo divento se credo in un Dio assente? e se credo in un Dio persecutore?
E se invece credo in un Dio che è Amore fedele e incondizionato?
mercoledì 4 marzo 2009
La famiglia Vittimisti

Ancora sul "fare" la vittima e sul libro di Giacobbe (vedi il post del 3 marzo).
Tu dici: non mi riguarda, io non sono una vittima nè "faccio" la vittima. Va bene, ci credo. Allora sicuramente non ti ritroverai in nessuno degli esilaranti ritratti disegnati dall'autore, in quella che è descritta e raccontata come una vera famiglia, la famiglia Vittimisti.
Si parte dalla «nonnina», la «vecchietta», perchè «l'abilità del vittimismo cresce con il crescere dell'età e raggiunge il massimo nella vecchiaia». «Vecchiette e vecchietti incapaci di colpire una mosca con un bazooka - scrive Giacobbe - tengono per le palle intere famiglie». Come? «Lamentandosi. Facendo le vittime». «Più gli altri sono buoni, onesti, generosi, più tu, con il vittimismo, ne fai quello che vuoi».
Il figlio della nonnina è Ipocondriaco. La «maledizione del medico della mutua», non ha passato giorno della sua vita senza lamentarsi di essere ammalato di qualche cosa. Ha la casa piena di medicinali. «Vive con il termometro piantato nel culo». Il suo sogno è vivere in un ospedale, nutrirsi con le flebo e svuotarsi tutti i giorni l'intestino con un enteroclisma. Le supposte sono la sua modalità di farmacologica preferita, secondo lui «la più grande invenzione umana dopo la ruota».
Ipocondriaco ha una sorella: Salutista. Ovviamente vegetariana, è contraria agli Ogm e mangia solo "bio". Non va con gli uomini per paura delle malattie. Lava le mani almeno dieci volte al giorno. Respira in casa aria depurata. «Nel testamento lascia detto di disinfettare accuratamente la bara».
Ipocondriaco e Salutista hanno un figlio (ovviamente con l'inseminazione artificiale). Si chiama Lamentoso. A scuola, all'università, al militare, al lavoro, il giorno del matrimonio. Ovunque trova modo e occasione per lamentarsi. Si lamenta del fallimento della Parmalat, anche se lui non ha comprato nemmeno un'azione. Si lamenta del Centro e dei partiti estremisti, del Centro-sinistra e dei sindacati. L'importante è per lui lamentarsi. Il lamento è vita.
Suo fratello è Incontentabile. Mentre Lamentoso si limita a lamentarsi ma poi ingoia tutto, lui non ingoia niente. Rifiuta. È una protesta continua.
Lamentoso e Incontentabile hanno una sorella: Crocerossina, pronta a sacrificarsi fino al martirio, si sposa e partorisce 4 gemelli: Pauroso (appena nato devono praticargli la respirazione artificiale perchè ha paura di respirare; al matrimonio non si presenta per paura che non si presenti la sposa), Tappetino (chiede scusa a tutti), Tradita e Catastrofica (non si accontenta di ergersi solo lei a vittima. Vuole coinvolgere tutto l'universo).
Tappetino e Tradita fanno un figlio: Imputato. Si sente accusato di tutto, anche se nessuno gli dice niente. Chiunque lo guardi lo reputa colpevole.
Anche Catastrofica e Pauroso fanno un figlio: Atlante. Il «componente più commovente e cretino della famiglia Vitimisti». È quello che si porta il mondo sulle spalle. Non dorme perchè pensa allo Tsunami, al Darfur, ai bambini dei Biafra, ma anche all'assistenza sanitaria e la previdenza sociale per le prostitute, ai gay, alle minoranze. Come molti dei suoi parenti muore suicida. Vorrebbe impiccarsi a una trave ma, ovviamente, anche la trave gli cade addosso...
E poi ancora nipoti e pronipoti: Insicuro, Ansioso, Depresso, Sospettoso, Infelice, Smarrita, ecc... Sono tanti, ma una caratteristica li unisce tutti: la paura. Al fondo di tutti i Vittimisti c'è la paura.
Sicuro che non sono parenti?
lunedì 2 marzo 2009
Quanto soffro!

Come tutti i buoni, o presunti tali, tendo da sempre a fare la vittima. Forse è per questo che non poteva non attirarmi un libro con questo titolo: "Come smettere di fare la vittima e non diventare carnefice" (Mondadori, 2008).
L'autore - Giulio Cesare Giacobbe - è uno psicologo e psicoterapeuta con la mania dei manuali, tutti finora baciati dal successo per via dei contenuti molto aderenti alla vita delle persone, dello stile volutamente "facile" e ironico, e di una titolazione senza dubbio ardita e folgorante: "Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita" (Ponte alle Grazie, 2003); "Alla ricerca delle coccole perdute" (2004); "Come diventare un buddha in cinque settimane" (2005); "Come diventare bella, ricca e stronza" (Mondadore, 2006); Come fare un matrimonio felice che dura tutta la vita" (2007).
La tesi centrale di questo libro è la seguente: "Non si è vittima, si fa la vittima". Cioè "quello di vittima è un ruolo momentaneo, è la condizione che noi assumioamo in un singolo evento". Per cui "si può smettere di fare la vittima in qualsiasi momento", a patto che lo si voglia. E "in qualunque momento si può passare dalla condizione di vittima a quella di carnefice e viceversa".
Il fatto è che la vittima crede normalmente di essere "nata" tale, che la sua sia una condizione permanente e definitiva, assegnatale dal destino. In questo senso, "la vittima psicologica - dice Giacobbe - è sempre una vittima nevrotica". Soffre della nevrosi della vittima. E' vittima - e carnefice - di se stessa. "Se tu soffri per quello che fanno gli altri della loro vita, la colpa non è degli altri, ma tua, che ti crei aspettative fuori dalla realtà, cioè nevrotiche". Mentre "la mia sofferenza è sempre un mio problema".
Ma c'è qualcosa di peggio, del fare la vittima. E' fare la "vittimacarnefice". Basta creare negli altri un senso di colpo facendo la vittima. Se uno si sente in colpa automaticamente passa per carnefice anche davanti a se stesso. E così, facendogli credere di essere un carneficie - mi hai fatto tanto soffrire! - ho creato una vittima. "Chiunque ti induce un senso di colpa - avverte l'autore - lo fa soltanto per dominarti"...
Lo fa per amore, in verità. Per un vuoto di amore che cerca di colmare richiamando l'attenzione degli altri, "costringendo" gli altri all'attenzione nei suoi confronti. Il bambino non ha stima di se stesso: "i vittimisti sono tutti dei bambini". "Ma l'amore e la stima di se stessi e degli alri si guadagnano in un solo modo. Crescendo. Diventando adulti".
"L'amore e la stima di te stesso sono la chiave che apre la porta della cella nella quale sei rinchiuso".
lunedì 15 dicembre 2008
Che te rode?

"Tutto ciò che degli altri ci irrita può portarci alla comprensione di noi stessi"
(Carl Gustav Jung)
Questa è una lezione spesso difficile da accettare perchè richiede grande umiltà. "Perchè questa cosa mi fa arrabbiare? Perchè ciò che questa persona dice o fa mi irrita così tanto?" Se ci ponessimo seriamente queste domande scopriremmo di noi molte cose che ancora non conosciamo. E che ci farebbero, forse, irritare...
(Foto da Flickr/gumuz)
sabato 1 marzo 2008
La paura di essere felici
C’è una sola grande paura che tutti abbiamo. La grande terribile paura di essere felici.
Prendo la provocazione dal libro della psicologa Elsa Belotti postato prima. “Mi va tutto bene…mi succederà qualcosa”. La frase è probabilmente molto antica e rivela la paura che, se si è felici, succederà qualcosa di male. A livello inconscio, spiega l’autrice, si teme che qualcuno dall’alto, vedendo la nostra felicità, avrà il gusto di rovinarcela. L’origine di questa paura va ricercata nel mondo infantile. Il bambino sperimenta molto presto che quando fa qualcosa di piacevole, spesso un genitore interviene. Si registra quindi, fin da piccoli, l’intervento di un grande come punizione o negazione di un piacere. Se gli interventi sono troppo frequenti e non misurati con altrettanti permessi al piacere, ogni volta che il bambino sta per permettersi di essere felice, temerà un intervento frustante dall’alto.
Ora, dice la Belotti, il rischio è rimanere bloccati – nella “pancia” – a questa dinamica infantile. E vivere da grandi ogni possibilità di felicità e di piacere con lo stesso timore. C’è persino chi prova rassicurazione ed essere triste o depresso perché in tal modo non deve più temere un intervento punitivo: lo precede.
Anche con Dio – aggiunge – sperimentiamo la stessa dinamica. Un genitore sadico che, vedendo dall’alto che siamo sereni e ci permettiamo la gioia, interverrà in modo punitivo. “Cosa ho fatto di male per meritare questo?”, “perché Dio se la prende con me?”, sono le frasi rivelatrici. Ma è un grave torto attribuire a Dio la nostra incapacità di darci il permesso di essere felici, il desiderio punitivo che in realtà è dentro di noi (si chiama proiezione).
Prendo la provocazione dal libro della psicologa Elsa Belotti postato prima. “Mi va tutto bene…mi succederà qualcosa”. La frase è probabilmente molto antica e rivela la paura che, se si è felici, succederà qualcosa di male. A livello inconscio, spiega l’autrice, si teme che qualcuno dall’alto, vedendo la nostra felicità, avrà il gusto di rovinarcela. L’origine di questa paura va ricercata nel mondo infantile. Il bambino sperimenta molto presto che quando fa qualcosa di piacevole, spesso un genitore interviene. Si registra quindi, fin da piccoli, l’intervento di un grande come punizione o negazione di un piacere. Se gli interventi sono troppo frequenti e non misurati con altrettanti permessi al piacere, ogni volta che il bambino sta per permettersi di essere felice, temerà un intervento frustante dall’alto.
Ora, dice la Belotti, il rischio è rimanere bloccati – nella “pancia” – a questa dinamica infantile. E vivere da grandi ogni possibilità di felicità e di piacere con lo stesso timore. C’è persino chi prova rassicurazione ed essere triste o depresso perché in tal modo non deve più temere un intervento punitivo: lo precede.
Anche con Dio – aggiunge – sperimentiamo la stessa dinamica. Un genitore sadico che, vedendo dall’alto che siamo sereni e ci permettiamo la gioia, interverrà in modo punitivo. “Cosa ho fatto di male per meritare questo?”, “perché Dio se la prende con me?”, sono le frasi rivelatrici. Ma è un grave torto attribuire a Dio la nostra incapacità di darci il permesso di essere felici, il desiderio punitivo che in realtà è dentro di noi (si chiama proiezione).
Il muro di cartone
Non c’è nulla come il cambiamento che ci spaventa, ci minaccia, ci sconvolge, ci trattiene, ci ferisce, ci interroga. È una delle idee portanti del libro che ho finito di leggere in questi giorni: Le musiche della vita e la nostra complicità (Edizioni Celtis), un testo facile ma ricco di spunti scritto dalla psicologa Elsa Belotti insieme al marito Enzo bigi.
È più facile ammalarsi – viene detto -, soffrire, forse anche morire pur di non affrontare la fatica del cambiamento. Eppure non c’è aspetto delle vita che non dipenda dalla legge del cambiamento. La vita, cioè, “si affida” al cambiamento, quasi vi si identifica. Conseguenza logica sarebbe per noi il fidarsi del cambiamento. Ma nella realtà non è così. Il cambiamento è il nostro nemico. Tutte le nostre forze, che dovrebbero essere impegnate ad affrontare cambiamenti per meglio adattarci alla vita, alla realtà, sono invece concentrate nel mantenere la situazione tale e quale. Non si evita a rovinarci anche il piacere per non affrontare mutamenti.
Temiamo il cambiamento perché lo sentiamo come un muro enorme contro il quale andremo a sbattere e ci faremo male. In realtà – sostengono gli autori – il cambiamento è un muro sottile di cartone che si abbatte con una spallata: basta la decisione di farlo. Dall’altra parte c’è un nuovo mondo, un nuovo orizzonte.
È più facile ammalarsi – viene detto -, soffrire, forse anche morire pur di non affrontare la fatica del cambiamento. Eppure non c’è aspetto delle vita che non dipenda dalla legge del cambiamento. La vita, cioè, “si affida” al cambiamento, quasi vi si identifica. Conseguenza logica sarebbe per noi il fidarsi del cambiamento. Ma nella realtà non è così. Il cambiamento è il nostro nemico. Tutte le nostre forze, che dovrebbero essere impegnate ad affrontare cambiamenti per meglio adattarci alla vita, alla realtà, sono invece concentrate nel mantenere la situazione tale e quale. Non si evita a rovinarci anche il piacere per non affrontare mutamenti.
Temiamo il cambiamento perché lo sentiamo come un muro enorme contro il quale andremo a sbattere e ci faremo male. In realtà – sostengono gli autori – il cambiamento è un muro sottile di cartone che si abbatte con una spallata: basta la decisione di farlo. Dall’altra parte c’è un nuovo mondo, un nuovo orizzonte.
sabato 24 novembre 2007
L'inconscio è anche luce
«L'inconscio non è soltanto male, ma è anche la sorgente del bene più alto; non è solo buio ma anche luce, non è solo bestiale, semi-umano, demoniaco, ma è anche sovrumano, spirituale e, nel senso classico del termine, 'divino'». Trovo citata questa frase di Carl Gustav Jung nel mattutino di Gianfranco Ravasi. Dal libro "La pratica della psicoterapia" del grande autore svizzero (1875-1961). Dedicata a tutti quelli che sono 'costretti' dalla vita a guardare dentro di sé. E anche a quelli che per paura di trovarvi dei mostri rinunciano a farlo.
Iscriviti a:
Post (Atom)