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venerdì 19 febbraio 2021

La via d'accesso

Non deve essere
l’iris blu, potrebbe essere 
l’erbaccia in un campo abbandonato, o poche 
piccole pietre; solamente 
presta attenzione, poi metti insieme 
poche parole e non provare 
a renderle elaborate, questa non è 
una gara ma la via d’accesso 
in un ringraziamento, e un silenzio in cui
un’altra voce può parlare.

Pregare, Mary Oliver






mercoledì 20 giugno 2012

Come un buon pescatore


Siedi nella tua cella come nel paradiso. Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle. Fa' attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci


Inizia così la "piccola regola" di San Romualdo, eremita e fondatore di monasteri, padre dei monaci camaldolesi (nell'immagine a destra ritratto da Giotto, nella cappella degli Scrovegni).

L'ho ascoltata ieri per la prima volta declamata da Marco Guzzi in un incontro alla Camera dei Deputati su "La Parola e il Silenzio. Zen, Sufismo, Mistica Cristiana Tre vie sapienziali nel solco dell'attualità".

Proprio ieri la liturgia della Chiesa Cattolica celebrava la memoria liturgica di San Romualdo, nato a Ravenna intorno al 952 avanti Cristo e morto vicino Fabriano il 19 giugno del 1027.

E' bello quando le tradizioni sapienziali millenarie si incontrano, ognuna nella sua specificità. E' bello rendersi conto delle tante analogie e anche delle differenze, senza irrigidimenti né sincretismi. E ascoltare quanto di buono, ricco e utile (pratico) possono insegnare ed offrire all'uomo di oggi, alla ricerca di un centro interiore pacificante e rigenerante, "ricreativo".

Nell'era della globalizzazione planetaria, l'incontro con l'Altro si rivela sempre più inequivocabilmente come Segno dei tempi. La ricchezza dell'altro - penso in particolare alle pratiche meditative appartenenti alla tradizione orientale - diventa l'occasione per riscoprire (e rinnovare) la mia ricchezza, la ricchezza della nostra tradizione spirituale, che in maniera impropria o quanto meno riduttiva chiamiamo occidentale (i Padri del deserto erano occidentali? eppure appartengono a pieno titolo alla nostra tradizione).

Eppure quante rigidità e quante ambiguità intorno a questi temi, quante resistenze e quanta superficialità. Quante violente chiusure e altrettanto violente semplificazioni. Sono convinto che passeranno anche queste. L'urgenza dei cuori avrà ragione di ogni cosa. La ricerca straziante della felicità (cioè del Paradiso) ci costringerà a passare per le strade che non vediamo o non vogliamo.

Lo stesso rilancio della fede, la nuova evangelizzazione, dovrà passare inevitabilmente - io credo - attraverso la scoperta e soprattutto la pratica, l'esperienza concreta, di una interiorità sempre più viva e più autentica, una sorta di mistica quotidiana o monachesimo laico, feriale, che sappia riconciliarci con noi stessi (pensieri, parole, opere e omissioni) e con gli altri, con il mondo e il suo Creatore, con la sua Parola ed il suo Silenzio.

Magari attraverso "piccole regole", come quella di San Romualdo (qui in un'altra traduzione)

Siedi nella tua cella come nel paradiso. Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle. Fa' attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci.

L'unica via per te si trova nei Salmi, non lasciarla mai. Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti, cerca, ora qua ora là, di cantare i Salmi nel cuore e di capirli con la mente. 

Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l'intelligenza. 

Anzitutto mettiti alla presenza di Dio come un uomo che sta davanti all’imperatore. 

Svuotati di te stesso e siedi come una piccola creatura, contenta della grazia di Dio; se come una madre Dio non te la donerà, non gusterai nulla, non avrai nulla da mangiare.


mercoledì 21 marzo 2012

Il mare è la storia


Dove sono i vostri monumenti, le battaglie, i martiri? 
Dov'è la vostra memoria tribale? Signori, 
in quella volta grigia. Il mare. Il mare 
li ha racchiusi. Il mare é la Storia

Derek Walcott, premio Nobel nel 1992, è chiamato "l'Omero dei Caraibi", perché di quelle isole ha narrato le vicende epiche traendone ispirazione per la sua opera, i drammi e le poesie. La sua opera più famosa si intitola proprio “Oméros”, e celebra il Paese dei Caraibi, la sua terra, la gente e il mare.

Non ho mai separato la poesia dalla preghiera. Ho sempre creduto che scrivere versi sia una vocazione, non diversa da quella religiosa”.


(foto da Flickr, creative commons, Renzo Ferrante)



giovedì 14 ottobre 2010

E' un problema Suo…


C’era una suora molto severa, di quelle vecchio stampo. Se ne stava in cappella a pregare, col suo abito nero e il lungo velo, anch’esso nero. La chiamano per un’urgenza improvvisa, temendo una sua brusca reazione. Lei invece si alza, si volta repentina e mentre si aggiusta il velo, nel gesto tipico delle suore, la sentono dire: Ah, io Gliel’ho detto! Se si fa capire, la Sua volontà la facciamo; se non si fa capire, è un problema Suo…!

Ho ascoltato questo aneddoto agli esercizi spirituali della mia parrocchia, predicati dalla teologa Emanuela terribile, che ha spiegato: Ci vuole un grande fede per parlare così a Dio, un grande amore, una grande libertà. Esperienze che nascono nelle vite anche molto semplici, che custodiscono una grande capacità di silenzio.

Erano proprio il silenzio, e la preghiera, l'oggetto della sua predicazione
(ne ho fatto una sintesi qui).

Non si prega per andare in Paradiso - ha ribadito più volte - (per quello basta un bicchiere d'acqua offerto a un assettato). E’ che ogni tanto scivoliamo giù dalle ginocchia di Dio. Il silenzio, e la preghiera, ci aiutano a risalire su quelle ginocchia.



(Foto da Flickr/creativecommons/Shavar Ross:Madame Tussauds, Whoopi Goldberg, Sister Act)






martedì 28 luglio 2009

Anche all'inferno


"Se anche all'inferno si potesse pregare, l'inferno non esisterebbe più"

Giovanni Maria Vianney, il curato d'Ars (1786-1859). Il mio spacciatore di citazioni preferito, almeno ultimamente, è Lucio Brunelli, vaticanista del tg2. Ogni settimana cura su Vita la rubrica Pani e Pesci, che termina sempre con un Ipse dixit.





(La foto è tratta dal sito ufficiale del Santuario d'Ars)

giovedì 8 novembre 2007

"Lasciamo cadere le nostre maschere"

Ancora sull'importanza del "deporre", nella pratica della preghiera. Dalla rivista Pregare dei carmelitani, nel numero di novembre, leggo questo passaggio di Benedetto XVI dall'udienza del 22 agosto dedicata all'insegnamento di San Gregorio Nazanzieno: "...Gregorio - dice il Papa - ci insegna anzitutto l'importanza e la necessità della preghiera. Egli afferma che «è necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto si respiri» (Oratio 27,4: PG 250,78), perché la preghiera è l'incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di Lui (cfr Oratio 40, 27: SC 358,260). Nella preghiera noi dobbiamo rivolgere il nostro cuore a Dio, per consegnarci a Lui come offerta da purificare e trasformare. Nella preghiera noi vediamo tutto alla luce di Cristo, lasciamo cadere le nostre maschere e ci immergiamo nella verità e nell'ascolto di Dio, alimentando il fuoco dell'amore".

Quel "lasciamo cadere le nostre maschere" rientra senza dubbio tra le azioni del "deporre", con un linguaggio che tra l'altro richiama in maniera esplicita le tecniche e gli obiettivi fondamentali della meditazione, comuni a tutte le tradizioni spirituali.

Il cambio di stagione

Nel post del 29 ottobre avevo parlato dei due verbi della preghiera, "deporre" e "rivestire", sottolinenado in particolare l'importanza del
primo perchè il secondo non sia vanificato. "Deporre l'uomo vecchio" - da San Paolo (Efesini 4, 17-24) - per "rivestire l'uomo nuovo". E' come voler indossare un abito nuovo lasciando sotto quello vecchio. Come pretendere di fare il cambio di stagione senza svuotare l'armadio. E tutti sappiamo quanto l'operazione sia ardua e noiosa, quante scuse ci inventiamo per non farla. Così mettiamo i vestiti nuovi sopra i vecchi, spingiamo schiacciamo e pressiamo finchè c'è spazio. Fino a quando, ad un certo punto, l'armadio è pieno e non l'apriamo più. Forse è così che smettiamo di pregare.

martedì 30 ottobre 2007

Meditazione e preghiera cristiana

Il 9 ottobre scorso alla bibioteca Vallicelliana ho assistito ad una conferenza del ciclo "Le vie della conoscenza" dedicata al rapporto tra meditazione profonda e preghiera cristiana. Relatore Marco Guzzi. Ne offro qui una sintesi ai fini di una maggiore mia chiarezza e a beneficio - si spera - di qualche malcapitato lettore.

Ogni tradizione spirituale - ha esordito Marco - ci dice che la nostra esperienza sensibile ordinaria e l’elaborazione concettuale che ne deriva è in qualche misura erronea, parziale, distorta, illusoria. Non è, insomma, la realtà. Per la tradizione ebraico-cristiana il mondo – con dentro la morte, il male, la malattia – è una realtà corrotta, di tenebre e ignoranza, sulla quale non possiamo fondare la nostra vita. San Paolo esorta in continuazione a non conformare la nostra mente e la nostra vita a questo mondo, ma a rinnovare la nostra mente. Noi purtroppo traduciamo tutto in termini moralistici. La stessa idea marxista dell’alienazione è frutto di questa idea religiosa originaria. Così la psicoanalisi è un processo di “disalienzazione”. Quando ci dimentichiamo di essere alienati vuol dire che lo siamo del tutto.

Se il presupposto è questo,cosa desideriamo quando ci mettiamo in meditazione? Desideriamo uscire da questo stato ordinario di sofferenza e di alienazione. Non a caso meditazione e medicina hanno la stessa radice, med, curare.

La cura consiste in due passaggi fondamentali: svuotarsi e lasciarsi rifare, ricostruire, ristorare (Matteo 11,28: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò...)

Nella fase di svuotamento, riconosciamo le voci distorte che vogliono occupare il nostro cuore. Per metterle a tacere le devi prima riconoscere. Se non le vedi vuol dire che ci hai messo una pietra sopra. Riconosco quindi ciò che c’è di negativo e non mi ci identifico. Ma ci vuole silenzio per riconoscere le voci. Occorre osservare ciò che ci abita, lasciarlo emergere, senza rimuoverlo, e lasciarlo andare. La psicologia ci può aiutare a riconoscere gli automatismi mentali, ed evitare che la meditazione diventi rimozione. Un sano lavoro psicologico svolge una funzione purificatrice essenziale sulla pratica spirituale per evitare che diventi, come tende sempre, una forma di difesa.

Più ci dis-identifichiamo, più conquistiamo stati di pacificazione e integrazione. Scendo al di sotto dei vaneggiamenti della mente, in uno spazio di libertà e di silenzio in cui scopro di non essere del tutto determinato dagli automatismi ereditati dal passato. Questa libertà è gaudio, sollievo, annuncio che io sono qualcos’altro da tutto ciò che mi ferisce e mi confonde. Scopriamo di essere abissali. Liberi perché trascendenti le cose del mondo. Trascendenti perché aperti all’infinito.

Questa condizione è ciò che l’uomo può conoscere da sé. La ritroviamo in ogni tradizione. L’uomo da solo presagisce la sua infinità, la sua natura spirituale, trascendente. Ma resta ancora indefinito moltissimo. Chi sono io in questa apertura all’infinito? C’è ancora un io? Cosa o chi è questo infinito? Sentiamo che è una fonte, ma cos’è? Chi è? Non possiamo farne esperienza ‘naturalmente’. Non sappiamo se c’è un disegno salvifico. Non sappiamo la causa e il senso del dolore e della morte…

Giunti cioè alla mortificazione dell’uomo vecchio, silenziate le parti negative, raggiunta la vacuità della mente, ognuno di noi farà esperienza di ciò cui crede, ciò cui già prima avrà aderito per fede. Non esiste cioè un’esperienza spirituale naturale. C’è sempre una rivelazione. Si fa esperienza di ciò cui si decide liberamente di credere. Non si può vivere un’esperienza spirituale senza il rischio della fede, dell’adesione umile e concreta ad una fede storica. A noi non piace scegliere: perché rinunciare all’infinità del possibile? Ma la vera libertà è scegliere il possibile concreto. Non si superano le religioni storiche. I santi sono radicati nelle più modeste tradizioni spirituali. Le sintesi sono illusorie, sono l’opposto del dialogo. E’ la vera morte dell’ego: farai esperienza solo di ciò cui avrai creduto.

Il tuo nuovo io ‘ristorato’ sarò dunque costituito dalle parole cui avrai dato il cuore, dalle parole cui hai creduto. Il mio io viene riformulato dalle parole bene-dette di Dio, in quel dialogo che è la preghiera cristiana. Quindi la meditazione silenziosa non è la meta della preghiera ma un continuo passaggio. La meta, l’assoluto, per il cristiano, è la comunione con Dio, la libera comunione tra due persone che si parlano, non il silenzio quindi né l’unità indistinta. E’ un dialogo che si dipana in una storia, nel tempo, ecco perché ho bisogno della preghiera quotidiana, della lectio quotidiana, del pane quotidiano. Per non dimenticare e ridire ogni giorno le parole di Dio: "Dicendo le parole che ascolti diventi me"

lunedì 29 ottobre 2007

Deporre e rivestire, i verbi della preghiera

Primo. Cosa manca alla mia preghiera? Secondo. Cosa vorrei dalla mia preghiera? Due domande dirette cui rispondere altrettanto direttamente, “senza ragionamenti”. Così abbiamo iniziato quest’anno gli incontri della fraternità delle giovani coppie, a San Frumenzio. A porre le domande Marco Guzzi, venuto a raccontarci l’esperienza della preghiera. Ed ecco le risposte, in fila. Cosa manca alla mia pratica di preghiera? La pratica (!), la continuità, il silenzio, la capacità di abbandono, di svuotare la mente. Cosa vorrei raggiungere: l’intimità con dio; la condivisione con il marito/la moglie; “sentire” la Parola di dio anziché capirla (anzi, spesso capire la Parola mi impedisce di sentirla); riuscire ad avere quella forza che mi spinga a vivere diversamente, vivere un dialogo ininterrotto con Gesù; ritrovare lo sguardo di Dio su di me; rinnovarmi interiormente.

Quello che desideriamo dalla preghiera – ha commentato Marco – è ciò che desideriamo dalla vita”. Il che significa che “siamo la preghiera che viviamo”: “Quello che riusciamo a vivere nella preghiera, lo viviamo nella vita. Ciò che ci manca nella preghiera, viene a mancarci nella vita”.

Come può essere, allora, o deve essere questa preghiera? Marco invita a leggere San Paolo, la lettera agli Efesini, il capitolo 4, 17-24

non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell`ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore ... Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, … dovete deporre l`uomo vecchio …, l`uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l`uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.

O anche Colossesi 3, 8-11

Ora invece deponete anche voi tutte queste cose... Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell`uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore.

“Deporre” e “rivestire” sono i due verbi della preghiera secondo Marco. Ma il primo lo trascuriamo spesso, rendendo di fatto vano anche il secondo.