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mercoledì 28 aprile 2010

L'arco e le frecce


Educare i figli è necessario, purchè si sappia che è impossibile.

Serata all'insegna dei paradossi quella di ieri nella mia parrocchia, dedicata al tema dell' essere genitori "adulti".

Dove vai papà stasera? - Mi hanno chiesto i miei figli vedendomi uscire - Va ad imparare a fare il papà! - Ha risposto per me la mamma (senza ironia, ve lo giuro, almeno spero).

Un confronto tra genitori di diverse età guidato da un sacerdote "in borghese", don Gabriele Quinzi, che insegna pedagogia familiare all'università salesiana.

Che significa essere un genitore adulto? Ciascuno ha tentato di rispondere a questa domanda sulla base di un testo arcinoto del poeta e mistico libanese Kahlil Gibran:

I vostri figli non sono figli vostri...
Benchè vivano con voi non vi appartengono.
Potete donare loro l'amore ma non i vostri pensieri.
Potete offrire rifugio ai loro corpi ma non alle loro anime:
esse abitano la casa del domani, che non vi sarà concesso di abitare neppure in sogno.... Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti...

Non tutti hanno accettato le provocazioni proposte dai paradossi di Gibran. Ma come "non sono nostri figli"? Come "non ci appartengono"? Perchè non possiamo donare loro anche i nostri pensieri, oltre l'amore. Allora dobbiamo forse rinunciare ad educarli?

Ma i paradossi, si sa, suscitano reazioni unilaterali. Mentre il loro siginificato sta proprio nella capacita e necessità di tenere insieme gli opposti (proprio come il Vangelo: perdere la vita per trovarla, amare i nemici, ecc...)

Allora il genitore adulto sarà davvero - o meglio proverà ad essere - come l'arco di cui parla Gibran: fermo e flessibile a un tempo, coerente e insieme capace di venire incontro alle richieste del proprio figlio.

Il genitore adulto sa accompagnare il figlio ma anche "lasciarlo solo". Dà al figlio la "possibilità di crescere" amandolo ed educandolo, ma consentendo che sbagli, che faccia le sue scelte, accettando che possano essere diverse dalle sue (l'educazione - ha detto qualcuno - non è un'equazione matetamitica, purtroppo o per fortuna).

Il genitore adulto, infine, "si affida con gioia alla mano dell'Arciere", coltiva cioè la propria fede nel Signore, o laicamente la propria fiducia nella vita, nel futuro, nella "casa del domani". Se non vuoe scaricare sui figli le proprie paure e le proprie ansie, dissimulate quasi sempre sotto le migliori e più ragionevoli intenzioni.


(Foto da Flickr/creativecommons/Ricky Flores)




lunedì 2 novembre 2009

Il mare d'inverno


Quando vado a trovare papà al cimitero mi piace portargli una rosa, una sola, ma molto bella. In una delle infinite tonalità del rosa. La scelgo con cura prima di partire, ci metto del tempo, è importante. Non la lascio nel vaso, ma la incastro nella grata di ferro battuto perché sia più vicina alla sua fotografia. La lascio lì accanto, come una carezza.

Nel giorno tradizionalmente dedicato alla commemorazione dei defunti (Halloween permettendo) mi commuovono queste parole che leggo sul Corriere della Sera, dalla penna di Benedetta Tobagi, figlia di Walter Tobagi, il giornalista ucciso a Milano dalle brigate rosse il 29 maggio 1980. Benedetta aveva allora 3 anni - Non ho ricordi di mio padre da vivo: è morto troppo presto - ma oggi arriva a scrivere un libro per raccontarne la storia che Einaudi pubblica con un titolo che trovo bellissimo: Come mi batte forte il tuo cuore.

Il Corriere della Sera ne anticipa alcuni passaggi, alcuni più legati alla vicenda pubblica (l’omicidio, le indagini, il processo, il rigore di Tobagi) altri più intimi, legati al rapporto padre-figlia, un rapporto che appare straordinariamente vivo, nonostante la morte. Scrive Benedetta:

Il mare d’inverno è il mio rifugio. Ci vado da sola. Quando sono stanca, confusa, l’acqua e la luce mi calmano sempre. Guardando l’orizzonte, prima o dopo, penso sempre a papà. Mi sembra che sia più vicino. Chissà come mai: dall’Umbria a Milano, mare niente. Poi ho capito. Una coincidenza curiosa come una conchiglia integra, perfetta, sbucata dalla sabbia. Me l’ha regalata Marilisa, quasi una zia, mentre mi portava in macchina alla stazione dopo una breve visita. Le chiedo a bruciapelo: “Papà preferiva il mare o la montagna?” “Il mare. Andare in montagna gli piaceva per la compagnia, ma lui amava di più il mare. Mi ricordo che una volta ha detto che gli piaceva soprattutto il mare d’inverno, quando è tutto vuoto, e si possono sentire le voci delle persone sulla spiaggia, in lontananza». Ho pianto in silenzio mentre l’auto percorreva i tornanti al buio.