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lunedì 31 agosto 2020

Un pavimento cosparso di coriandoli

Il romancio (in Svizzera). L'osseto (tra Russia e Georgia). Il galiziano (nella penisola iberica). Il frisone (nei Paesi Bassi). Lo shelta (in Irlanda) e l'anglo-romaní (in Gran Bretagna). Il sorabo (in Germania sud-orientale). Il sami (in Groenlandia). Il monegasco (nel principato). Il gagauzo (in Moldova). Il dalmatico (che non c'è più), il cornico (Cornovaglia) e il mannese (nell'isola di Man). Il faroese (nelle isole Faer Oer). Persino il maltese.

Sono alcune delle lingue europee (parlate in Europa) di cui non conoscevo o non immaginavo neppure l'esistenza. Sono raccontate, inseme alle altre sorelle maggiori, nel libro interessante Le 60 lingue che uniscono l'Europa, del linguista e giornalista Gaston Dorren (Garzanti, 2020. Traduzione di Giuseppe Maugeri). Un viaggio sorprendente nel "mosaico multicolore" di lingue parlate nel vecchio continente. 

Se la cartina politica è un insieme di solidi blocchi monocromatici - scrive Dorren - le lingue del continente creano qualcosa di più simile a un mosaico multicolore in molti luoghi, mentre in altre regioni formano come un pavimento cosparso di coriandoli.

Può sembrare sorprendente, ma in Europa non esiste nessun paese (tranne l'Islanda) che abbia una lingua esclusivamente sua e che sia parlata da tutti i suoi abitanti. 

La madre di (quasi) tutte le lingue parlate in Europa è il protoindoeuropeo. Un nome inventato per una lingua parlata migliaia di anni fa (nessuno sa bene quando), in una terra lontana (nessuno sa bene dove), da un popolo di cui non conosciamo il nome. Eppure oltre il 95% degli europei parla attualmente una lingua indoeuropea (distinta da quella ugro-finnica o uralica parlata da finlandesi e ungheresi). 

La famiglia linguistica indoeuropea è la più grande al mondo e conta 10 rami. 8 sono europei: germanico, romanzo, slavo, celtico e baltico, albanese, armeno e greco. Gli altri 2 sono l'indiano e l'iranico, ma anche questi sono rappresentati in Europa grazie al romaní e all'osseto. 

Le storie delle 60 lingue sono brevi e sfiziose (quale più, quale meno), ricche di aneddoti storici e informazioni spesso curiose. L'italiano è trattato malissimo ed il libro soffre di un'impostazione anglossasone e più in generale nordeuropea, ma il quadro complessivo è davvero molto interessante e illuminante. Su tutti, forse, il capitoletto sulla lingua bielorussa, scritto con amabile ironia, che alla luce delle vicende ultime di cronaca politica appare di una sorprendente attualità.



martedì 5 febbraio 2008

Notte della cultura europea

Finalmente ho tra le mani e posso iniziare a leggere "Notte della cultura europea", il libro di Giuseppe Maria Zanghì che avevo trovato ottimamente recensito da Giovanni Casoli qualche tempo fa. Zanghì è il direttore della rivista culturale "Nuova Umanità", che fa riferimento al movimento dei Focolari di Chiara Lubich. Il libro, pubblicato da Città Nuova, inaugura la collana Universitas, che intende suggerire la vocazione all'unità, all'integrazione, dei diversi saperi.

Il testo si presenta come un breve e denso saggio sulla crisi della cultura europea, denunciata in tutta la sua radicalità, ma si segnala subito per il taglio interpretativo originale, soprattutto in ambito culturale ecclesiale. Nessun rimpianto infatti per i bei tempi antichi, nessuna angoscia per il piano inclinato del "dove andremo a finire!". Ma il tentativo di dialogare con con questa cultura contemporanea tenendo in conto lo "specifico negativo di essa" ma anche - osa affermare l'autore - l' "ineludibile positivo", presente magari "in gestazione dolorosa, ma non per questo meno vero, e proteso su nuovi compimenti". La notte, cioè, non smette di essere notte, ma forse - citando Bulgakov - quest'oscurità "non è che un'ombra gettata da Colui che viene".

Una seconda idea forte e ugualmente originale intorno a questa notte della cultura europea contemporanea è la seguente. Con buona pace dei teorici dell'assedio della cristianità, "non dobbiamo pensare che la deriva atea o indifferentista della cultura europea contemporanea sia un fatto 'esterno' alla cultura cristiana: è qualche cosa che la tocca nel suo profondo, perchè ha in essa alcune delle sue radici". Detto con le parole di Giovanni Paolo II al V Simposio dei vescovi d'Europa (1982): "Le crisi dell'uomo europeo sono le crisi dell'uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana". "Queste prove, queste tentazioni e questo esito del dramma europeo non solo interpellano il cristianesimo e la Chiesa dal di fuori...ma in un certo senso vero sono interiori al cristianesimo e alla Chiesa".

La terza idea importante, infine, riguarda il concetto di cultura cristiana, che non può mai dirsi definita una volta per tutte, perché il Vangelo è il suo "orizzonte", "sempre ancora e di nuovo da raggiungere". Non può mai essere sistema chiuso, ideologia, perchè continuamente purificata e trascesa dall' "amore che cerca e parla per primo". "Si tratta allora, perchè si abbia cultura cristiana, di condurre il pensiero all'obbedienza a Cristo".