Il destino di una città può diventare il carattere di una persona, dice Orhan Pamuk nel suo libro autobiografico Istanbul (Einaudi, 2006), che racconta i quartieri, i vicoli e le storie della città intrecciandoli con il racconto della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua formazione letteraria, fra le ceneri di un impero crollato.
Il lettore si è accorto che cercando di raccontare me stesso racconto Istanbul e raccontando Istanbul racconto me stesso.
Lo stato d'animo che ha dominato la città in questi ultimi 150 anni (1850-2000), e che la città ha diffuso intorno a sé, è inesorabilmente la tristezza. Ma nella tristezza di Istanbul c'è una forma di orgoglio, anzi una sorta di superbia, che ha a che fare con la modernizzazione della città, la sua occidentalizzazione e il progresso del nazionalismo turco.
Gli abitanti nazionalisti di Istanbul - scrive Pamuk - avevano bisogno di una bellezza triste in grado sia di accentuare l'identità musulmana della popolazione di Istanbul, sia di dimostrarne l'esistenza nei secoli attraverso l'espressione di un sentimento di perdita e sconfitta.
La nuova identità della città nasce e si sviluppa sotto gli occhi dell'occidente, in un rapporto complesso e controverso di amore e odio. Quando sento mancare gli sguardi occidentali su di me - scrive Pamuk - divento l'Occidentale di me stesso.
Ma gli occidentali, che hanno raccontato Istanbul prima e più di quanto non abbiano fatto i suoi abitanti, ne hanno sempre amato le caratteristiche "esotiche", non occidentali, mentre il movimento occidentalista che ha dominato la città nell'ultimo secolo ha distrutto ed eliminato senza tanti problemi queste peculiarità, considerandole degli ostacoli per l'occidentalizzazione.
In questo paradosso si esprime l'identità inquieta e incerta di Istanbul e dei suoi abitanti, compreso lo scrittore.
La città che io chiamo "mia", non è poi completamente mia [...] Non mi sento né completamente appartenente a questa città, né completamente straniero. Questo è anche l'atteggiamento mentale della gente di Istanbul negli ultimi centocinquant'anni [...]. Tutto è a metà, insufficiente, lacunoso.
E ancora.
Dove sta il segreto di Istanbul? Nella miseria che vive accanto alla sua grande storia, nel suo condurre segretamente una vita chiusa di quartiere e di comunità, nonostante fosse così aperta agli influssi esterni, oppure nella sua vita quotidiana costituita di rapporti infranti e fragili, dietro la sua chiara bellezza monumentale e naturale? In realtà ogni frase sulle caratteristiche generali di una città, sulla sua anima e sulla sua essenza, si trasforma in un discorso sulla nostra vita, e soprattutto sul nostro stato d'animo. La città non ha altro centro che noi stessi.
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