mercoledì 22 luglio 2020

Perché sei venuto a disturbarci?

Perché sei venuto a disturbarci?

Meravigliosa la domanda che il "grande inquisitore" pone a Cristo nel finale del primo libro dei Fratelli Karamazov, "uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo d’una bellezza inestimabile" (S. Freud). 

Qual è questo disturbo? Cosa rimprovera davvero il cardinale inquisitore al Gesù tornato improvvisamente nella Spagna del Seicento, quando ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio?

La scandalo di Gesù Cristo, nel racconto immaginario creato dal genio di Dostoevskij, è la libertà, giacché nulla mai è stato per l'uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!

Non c'è per l'uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura. 

E che fa invece il Cristo? Che fece all'epoca della sua prima comparsa sulla terra? 

Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l'hai ancora accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e forse perfino la morte è all'uomo più cara della libera scelta fra il bene e il male? Nulla è per l'uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso.

Ma per fortuna, prosegue il cardinale, andandotene, rimettesti la cosa nelle nostre mani. Per fortuna, abbiamo corretto l'opera Tua.

Perché se qualcuno più di tutti ha meritato il nostro rogo, sei Tu. 



giovedì 16 luglio 2020

Chi zoppica e chi s'impiglia


«La vita non è qualcosa che ci scivola addosso, ma un mistero stupefacente, che in noi provoca la poesia» ha detto papa Francesco in una recente udienza. E ha proseguito: «Quando a una persona manca quella dimensione poetica, diciamo, quando manca la poesia, la sua anima zoppica».

Leggendo queste parole, mi è tornata prepotentemente in mente un'immagine emblematica della poesia dell'Ottocento, quella del Poeta-Albatros di Charles Baudelaire, che con l’ali da gigante nel cammino s’impiglia.

Curioso che sia un'immagine, quella proposta del papa, radicalmente capovolta: non è il poeta a "zoppicare", a rimanere "impigliato", come vorrebbe Baudelaire, ma il non-poeta, l'uomo senza dimensione poetica. Chi dei due ha ragione? Chi zoppica veramente e chi s'impiglia? Qual è il giusto passo, qual è il giusto cammino?

Sono domande che pongono questioni enormi, dirimenti, le cui risposte disegnano scenari e percorsi di vita completamente diversi.

Lascio la questione sospesa. E colgo l'occasione per ricordare i versi di questa memorabile poesia di Baudelaire, che molti di noi hanno studiato a scuola (qui nella traduzione di Antonio Prete per Feltrinelli)


Spesso, per divertirsi, uomini d’equipaggio 
catturano degli albatri, vasti uccelli dei mari, 
che seguono, compagni indolenti di viaggio, 
il solco della nave sopra gli abissi amari. 

Li hanno appena posati sopra i legni dei ponti, 
ed ecco quei sovrani dell’azzurro, impacciati, 
le bianche e grandi ali ora penosamente 
come fossero remi strascinare affannati. 

L’alato viaggiatore com’è maldestro e fiacco, 
lui prima così bello com’è ridicolo ora! 
C’è uno che gli afferra con una pipa il becco, 
c’è un altro che mima lo storpio che non vola. 

Al principe dei nembi il Poeta somiglia. 
Abita la tempesta e dell’arciere ride, 
esule sulla terra, in mezzo a ostili grida, 
con l’ali da gigante nel cammino s’impiglia.

Baudelaire - L'Albatros | Poesia, Citazioni, Poeta

domenica 12 luglio 2020

Leviatan, la malvagità del destino

Non esiste, il caso. Esiste solo la malvagità del destino. E le sue perfidie, preparate di lunga mano, hanno un'apparenza fortuita solo perché ce ne sfugge la parte segreta.

È lui, il destino, il protagonista del romanzo di Julien Green intitolato Leviatan, pubblicato nel 1929. Il romanzo che Hermann Hesse diceva di aver letto almeno una decina di volte.

"Come nella tragedia antica - scrive Pietro Citati - Leviatan è dominato da una forza alla quale siamo costretti a dare il nome di destino".

Quella forza misteriosa è il leviathan, animale biblico e mitologico che richiama il caos primitivo e una necessità malvagia. Quella sensazione di un'impari lotta tra lui e una forza misteriosa, scrive Green di uno dei suoi personaggi. Può darsi che a volte noi ci serviamo di forze a noi ignote e che, approfittando del disordine in cui ci getta il furore, essendo sostituiscano a noi e dirigano i nostri gesti.

Leviatan racconta una storia apparentemente "borghese", ambientata nella piccola provincia francese degli anni trenta del Novecento. Mi colpisce che l'anno di pubblicazione sia lo stesso degli Indifferenti di Alberto Moravia, il romanzo per antonomasia, in Italia, della meschinità borghese del secolo XIX.

Eppure con Green ci muoviamo in una dimensione ulteriore, il mondo della tragedia e del mito. "Le figure di Green non sono affatto moderne", scrive il filosofo Walter Benjamin nella prefazione dell'edizione Longanesi. Sono "rigide come i personaggi mascherati dei tragici". "Nei loro gesti vivono antichissimi sovrani, delinquenti, ossessi". 

"Green non descrive le persone - continua il filosofo - le rende presenti in certi momenti fatali". "La distanza di Green dal comune romanziere sta tutta nella distanza che separa rendere presente da descrivere".

I suoi personaggi sono apparizioni e i loro gesti accadono come segnati da tragica fatalità (deità spettatrici di una tragedia), in un precipitare di sciagura in sciagura, di passione in passione, in un contesto abitato da dolore, sofferenza, orrore, distruzione psicologica e inevitabilmente fisica. "Il destino visita le sue figurale come una malattia".

Il pensiero che la felicità, la sua felicità era da qualche parte nel mondo e che egli non ne sapeva niente, lo faceva andare fuori di sé.

C'è uno strano piacere nel toccare il fondo della disperazione.

Per la prima volta in vita sua, forse, ebbe l'intuizione della gioia che un'anima generosa prova a fare del bene. E la tristezza le ritornò in cuore come il mare riaffluisce su una spiaggia.