Prendo questa citazione dalla pagina Facebook di un giovane scrittore italiano, Enrico Macioci. Esprime perfettamente il mio rapporto non solo con la scrittura ma anche con la lettura. Nel senso che possono esserci autori "facili" e altri più difficili, ma in tutti cerco - da lettore - questo atteggiamento umile (il senso di inadeguatezza) nei confronti della scrittura e della stessa realtà da raccontare. Di norma è una garanzia di qualità.
"Esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale: esso si concretizza in una forma di comunicazione onesta ed aperta, responsabile e rispettosa dell’altro" (Benedetto XVI)
lunedì 2 settembre 2013
Difficilissimo
Prendo questa citazione dalla pagina Facebook di un giovane scrittore italiano, Enrico Macioci. Esprime perfettamente il mio rapporto non solo con la scrittura ma anche con la lettura. Nel senso che possono esserci autori "facili" e altri più difficili, ma in tutti cerco - da lettore - questo atteggiamento umile (il senso di inadeguatezza) nei confronti della scrittura e della stessa realtà da raccontare. Di norma è una garanzia di qualità.
domenica 28 luglio 2013
La cathedra è il cuore
"Siamo riuniti un po’ in disparte, in questo posto preparato dal nostro fratello ..., per rimanere da soli e poter parlare da cuore a cuore".
Eccolo lo stile sorprendente di Papa Francesco, rivelato anche solo dallo stile dei suoi discorsi. Stile sorprendente perché evangelico, semplice come il Vangelo. Francesco è in Brasile nel suo primo viaggio pastorale, celebratissimo dai media nazionali e internazionali. Le folle lo accompagnano e lui si ferma "in disparte" a parlare con i vescovi brasiliani, come Gesù faceva con gli apostoli. Niente sa di cattedratico del suo discorso, niente di "formale", il Papa parla "da cuore a cuore", ma questo non scalfisce neanche per un'istante la sua autorevolezza. La sua cathedra è il suo cuore.
"Voglio abbracciare tutti e ciascuno" dice ai suoi fratelli vescovi, come ad ogni folla che incontra. E qui - mi si perdoni la sfrontatezza dell'accostamento - mi viene addirittura in mente la giovialità e la fisicità del giullare Roberto Benigni. "Godiamo di questo momento di riposo, di condivisione, di vera fraternità". Usa il verbo "godere" senza vergogna, questo Papa.
Francesco rievoca un episodio centrale della tradizione religiosa brasiliana - il ritrovamento in mare della statua di Nostra Signora di Aparecida, patrona del Brasile, da parte di alcuni pescatori - per parlare dell'agire di Dio e della Chiesa. "C’è qualcosa di perenne da imparare su Dio e sulla Chiesa in Aparecida".
Il primo insegnamento è quello dell'umiltà, "che appartiene a Dio come tratto essenziale". L'umiltà "è nel DNA di Dio".
Il secondo insegnamento rivela il modo di agire di Dio: "Dio è sorpresa": anche quando "le acque sono profonde... nascondono sempre la possibilità di Dio". E poi: "Dio entra sempre nelle vesti della pochezza".
La statua della Madonna che i pescatori tirano su dal mare è senza testa. I pescatori gettano le reti di nuovo per recuperare la parte mancante. Il mistero si mostra sempre "incompleto", a "pezzi", in attesa della rivelazione della sua pienezza. E invece, "noi vogliamo vedere troppo in fretta il tutto e Dio invece si fa vedere pian piano".
Quindi il tema della semplicità. "La gente semplice ha sempre spazio per far albergare il mistero. Forse abbiamo ridotto il nostro parlare del mistero ad una spiegazione razionale; nella gente, invece, il mistero entra dal cuore. Nella casa dei poveri Dio trova sempre posto". E allora: "Dio chiede di essere messo al riparo nella parte più calda di noi stessi: il cuore". La Chiesa deve ricordare sempre che "non può allontanarsi dalla semplicità, altrimenti disimpara il linguaggio del Mistero e resta fuori dalla porta del Mistero". "Abbiamo disimparato la semplicità, importando dal di fuori anche una razionalità aliena alla nostra gente. Senza la grammatica della semplicità, la Chiesa si priva delle condizioni che rendono possibile pescare Dio nelle acque profonde del suo Mistero".
Pescata la statua, i pescatori la portano a casa e chiamano i vicini a vedere la bellezza trovata. "Solo la bellezza di Dio può attrarre. La via di Dio è l’incanto che attrae. Dio si fa portare a casa. Egli risveglia nell’uomo il desiderio di custodirlo nella propria vita, nella propria casa, nel proprio cuore. Egli risveglia in noi il desiderio di chiamare i vicini per far conoscere la sua bellezza. La missione nasce proprio da questo fascino divino, da questo stupore dell’incontro".
L'ultima lezione è sui luoghi della rivelazione di Dio. Aparecida è comparsa in un luogo di incrocio tra Rio e San Paolo. "Dio appare negli incroci" ricorda Francesco ai vescovi, alla Chiesa, ai cristiani amanti dei recinti e dei confini.
Dal ricordo dell'episodio di Aparecida il Papa passa alle domande: "Che cosa chiede Dio a noi?". Che cosa ci chiede, in questa che "non è un’epoca di cambiamento, ma è un cambiamento d’epoca".
Francesco ricorre ora all'immagine dei discepoli di Emmaus per descrivere la situazione di quanti - tanti - abbandonano o hanno abbandonato la Chiesa, per i motivi più disparati. Perché la Chiesa per loro non ha più risposte. Perché non cercano più risposte, né nella Chiesa né altro. "Di fronte a questa situazione che cosa fare?" si domanda Francesco.
E la prima risposta per me è bellissima, quasi sconvolgente: "Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione". Via da ogni autoreferenzialità, capaci di mettere in gioco le proprie certezze.
Di fronte ad un panorama di smarrimento, di solitudine, di abbandono e di dolore spesso anestetizzato, "serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di decifrare la notte ...; una Chiesa che si renda conto di come le ragioni per le quali c’è gente che si allontana contengono già in se stesse anche le ragioni per un possibile ritorno, ma è necessario saper leggere il tutto con coraggio...". Una Chiesa capace di "dare calore" e "riscaldare il cuore". Ma ne siamo ancora capaci? - domanda Francesco provocatoriamente.
"Serve una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di “feriti”, che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore".
Ne siamo ancora capaci?
(foto da http://www.chiesacattolica.it/giovani/)
lunedì 8 luglio 2013
Un'alba alla volta

Padre di luce e di potenza
del sacro spendersi
in lavoro e poi lavoro
stringi le tue mani di gigante,
senti quanta ancora ne possiedi
di forza per viaggiare nel futuro,
nel bene che hai creato,
un'alba alla volta.
Così apre la raccolta "Figlio" di Daniele Mencarelli, Edizioni Nottetempo. Già autore dei bellissimi versi del libro "Gesù Bambino", Marco Lodoli segnala su Repubblica oggi la sua ultima raccolta, poesie di un padre al figlio nell'epoca dell'incertezza.
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mercoledì 27 febbraio 2013
Il compito dell'uomo
Da molto, troppo tempo, non mi concedevo il gusto di un ascolto attento e profondo come questo: il video di una conferenza dedicata al tema della "Creazione" alla luce del testo della Genesi.
Relatori il biblista Pietro Bovati e il poeta e filosofo Marco Guzzi. L'appuntamento si è svolto lo scorso dicembre alla Chiesa del Gesù a Roma.
Padre Bovati, gesuita, sviluppa il suo ragionamento a partire dall'intenzione dichiarata di correggere un'idea ancora molto diffusa, desunta da una lettura tradizionale del primo capitolo della Genesi: "In principio Dio creò il cielo e la terra". L'idea della legge di Dio come ordine naturale precostituito. Da cui l'assioma per cui obbedire a Dio equivarrebbe ad obbedire all'ordine costituito.
Il testo, in realtà, va inteso in senso liturgico e non cosmologico. L'ordine non è nelle cose, ma in ciò che esse significano, nella loro funzione appunto liturgica, nella loro relazione con il Creatore.
Va quindi compreso il significato "etico" del Creato. Non è tanto la descrizione delle cose create che il testo sacro ci vuole presentare, ma la rivelazione dell'interiorità di Dio, dei suoi sentimenti, di ciò che per Dio è "cosa buona". E la bontà delle cose non è nella loro perfezione o nella loro collocazione ordinata. Ma nell'intenzionialità buona che Dio vi ha posto. L'opera di Dio è buona perché è strumento di bene per l'uomo e da parte dell'uomo.
Intenzione di Dio e responsabilità dell'uomo. Le due cose stanno insieme. La bontà del Creato, cioè, è un'opera del Signore e, insieme, un compito, una missione, una vocazione per l'uomo. Senza la bontà dell'uomo non si realizza la bontà della creazione. L'essere umano è principio attivo della bontà della Creazione 'nel tempo', nel ritmo progressivo della storia.
E' il capovolgimento di quell'idea tradizionale da cui siamo partiti. La creazione di Dio non va intesa come prodotto finito e precostituito, ma come messa in moto di un processo. Il bene, l'armonia della Creazione, non è ciò che Dio ha già realizzato, ma ciò che di buono per mezzo dell'uomo si compirà. Il bene, cioè, non sta dietro di noi. L'uomo non è chiamato solo a conservare (la società, le leggi, la natura), ma ad essere promotore di sviluppo, con i suoi limiti e i suoi tradimenti. La bontà del cammino, il punto Omega verso il quale la storia tende, è garantito dalla benedizione originaria di Dio e dalla sua presenza nella Storia come spirito vivificante.
Anche Marco Guzzi riprende il tema della collaborazione costante dell'uomo alla Creazione di Dio. Il suo ragionamento parte dal "preciso rapporto" tra Dio, l'uomo e il Creato disegnato dalla Genesi.
"Dio creò l'uomo a sua immagine". L'uomo assomiglia a Dio come un figlio assomiglia al Padre. E' dunque della sua stessa specie, una specie divina. L'immagine di questa somiglianza non è solo maschile, ma maschile e femminile insieme ("Maschio e femmina li creò"). Un'immagine dunque non monolitica ma relazionale, "coniugale". L'essere umano non è una creatura tra le altre, ma svolge una funzione vitale e speciale nel mistero della Creazione.
La grandezza della sua funzione, che ancora e sempre fatichiamo a comprendere, è quella appunto di essere co-creatore, di essere chiamato a collaborare alla funzione creatrice di Dio. Non solo con le opere, spiega Marco Guzzi, ma prima ancora con la coscienza, con il pensiero, con le stesse emozioni.
Nel grande gioco dell'esistenza, del Creato, noi non siamo spettatori e non siamo marionette, ma siamo pro-creatori. In mezzo c'è il mistero della Caduta dell'uomo, del peccato, e della sua Redenzione. Cristo è la figura della perfetta riconciliazione con il Padre, il Creatore, e con la sua opera, il Creato.
"In Cristo - scriveva il teologo ortodosso Olivier Clément, citato da Guzzi come chiosa del suo intervento - sotto il soffio e i fuochi dello Spirito, l'uomo trova pienamente la sua vocazione di creatore creato".
giovedì 27 dicembre 2012
Vedere è già di per sé un atto creativo
Mi imbatto oggi per caso in questo meraviglioso testo di Henri Matisse sull'arte e la creatività, raccolto da Régine Pernoud per Le Courrier de l’Unesco del 1953, e ripubblicato dalla rivista Tracce nel febbraio del 2011.
"Guardare la vita con gli occhi di un bambino" è il significativo titolo di questo discorso, che andrebbe letto, gustato e meditato con calma, ma di cui voglio qui fermare alcune frasi e alcuni concetti estremamente suggestivi ed evocativi.
Henri Matisse è uno degli artisti più grandi del '900, il rappresentante più noto del "fauvismo", il movimento pittorico che contribuisce in Francia alla nascita dell’espressionismo, costituendone una variante «mediterranea» e solare. La vivezza coloristica, che è il vero tratto caratteristico di questo movimento, esprime un’autentica «gioia di vivere» che resterà costante in tutta la produzione del pittore francese.
Ecco dunque alcune frasi dal testo di Matisse:
"Per un artista la creazione comincia dalla visione. Vedere è già di per sé un atto creativo, che esige uno sforzo".
"L’artista (...) è tenuto a vedere tutte le cose come se le guardasse per la prima volta: occorre vedere tutta la vita come se fossimo bambini".
"Penso che nulla sia più difficile per un vero pittore che dipingere una rosa, perché per dipingerla deve dimenticare tutte le rose che ha dipinto prima".
"Occorre un grande amore, capace di ispirare e sostenere questo sforzo continuo verso la verità, questa generosità assoluta e questo profondo spogliamento che implica la genesi di ogni opera d’arte. Ma l’amore non è forse all’origine di tutta la creazione?"
(L'immagine: lo studio di Matisse a Nizza, 1941)
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mercoledì 12 dicembre 2012
E' bello essere qui con voi
Dear friends, I am pleased to get in touch with you through Twitter. Thank you for your generous response. I bless all of you from my heart.
Firmato: Benedetto XVI.
E' il primo tweet del Papa. Atteso da settimane da tutti i media. Preceduto dall'apertura di un profilo ufficiale su Twitter che ha suscitato come prevedibile - nella Rete e altrove - mille polemiche, ironie, ingiurie, dubbi e curiosità.
Ad alcune di queste obiezioni ha risposto anche oggi padre Antonio Spadaro, tra i più convinti sostenitori di questa iniziativa, direttore di Civiltà Cattolica e punta più avanzata della riflessione ecclesiale sulla "intelligenza della fede al tempo della Rete".
Ma torno al tweet del Papa.
Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi via twitter. Grazie per la vostra generosa risposta. Vi benedico tutti di cuore.
Alla vigilia avevo giocato con gli amici a immaginare quale messaggio il Papa avrebbe scelto per avviare la sua presenza su questo social network. Anche tra noi ha prevalso l'ironia, ma in cuor mio avevo provato a rispondere con serietà a questa domanda: se fossi tu il Papa, cosa scriveresti nel tuo primo tweet? Che poi è diventata: quali parole vorresti sentirti dire dal Papa?
Ecco, lo confesso con un certo imbarazzo ed emozione. Io avevo sperato di leggere esattamente queste parole. Non subito citazioni della Scrittura né messaggi morali o spirituali. Ma qualcosa tipo: è bello essere qui con voi, sono contento di incontrarvi. Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi. Ma ancora più bello in inglese, più fisico, più carnale: I am pleased to get in touch with you. Mi fa piacere (!) entrare in contatto con voi. E vi benedico tutti di cuore, anzi, dal mio cuore: from my heart.
L'umanità prima di tutto. La bellezza dell'incontro. La gioia di stare insieme. La gratitudine per la presenza dell'altro (Thank you for your generous response). Per i cristiani è la logica, la prassi dell'Incarnazione, dunque prassi eminentemente spirituale. Del resto, quasi ogni parola umana di questo saluto è intessuta, almeno per me, di rimandi spirituali e scritturali.
"Vi ho chiamato amici" (Gv 15,15). "E' bello per noi essere qui" (Mt 17,4). "Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito" (GV 11,41).
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lunedì 5 novembre 2012
La sfida dell'immaginazione
«Il cristianesimo in Occidente potrà fiorire solo se riusciremo a coinvolgere l'immaginazione dei nostri contemporanei. Non credo che l'ateismo ci offra tanto una sfida intellettuale, quanto piuttosto una sull'immaginazione».
Così padre Timothy Radcliffe, teologo domenicano molto apprezzato, racconta la sfida della nuova evangelizzazione, in un recente intervento alla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum.
Mi viene in mente il "battesimo dell'immaginazione" di cui parla padre Antonio Spadaro nel suo "Svolta di respiro. Spiritualità della vita cristiana". Ne scrivevo già qui: "La conversione, per essere profonda, deve toccare non solo i gesti e i pensieri ma anche l'immaginazione", altrimenti la fede "rischia di divenire rachitica, flebile" (oppure ideologica, appena appena riprende fiato e si galvanizza). Altrimenti, aggiungerebbe Radcliffe, non riusciremo a raggiungere il cuore degli uomini, non riusciremo a farci capire veramente, non riusciremo a trasmettere la fede.
Per immaginazione, secondo Spadaro, dobbiamo intendere il fare creativo, lo sguardo di stupore sul mondo capace di farsi racconto ed espressione artistica.
Similmente padre Radcliffe, per spiegare la sua "teoria" dell'immaginazione cristiana, non espone una teoria ma porta un esempio, "perché l'immaginazione cristiana dimora nel particolare" (come l'immaginazione poetica, del resto). L'esempio di un'opera artistica, un film, un racconto cinematografico recente che ha avuto un grandissimo successo di critica e di pubblico, soprattutto in Francia: Des Hommes et des dieux; in italiano, Gli uomini di Dio.
Il motivo del successo è nella forza della storia e del racconto, che ha per protagonisti uomini particolari - dei monaci, vissuti in una comunità particolare, in un contesto particolare - l'Algeria degli anni Novanta. Il tutto raccontato con un realismo e una precisione (da un regista non credente), che non ridimensionano piuttosto esaltano la luminosità (e la specificità cristiana) di quella testimonianza e di quel martirio. Nessuna edulcorazione, nessuna retorica, nessuna semplificazione (come invece in tanta produzione cinematografica pseudo-religiosa).
Ancora padre Radcliffe: "Le esigenze della vita cristiana non possono essere comunicate letteralmente, come una teoria astratta... Dobbiamo scoprirne la verità immaginativamente. Dobbiamo fare un viaggio verso l'illuminazione... La trasmissione della fede è come l'accensione successiva di fuochi di segnalazione... La trasmissione è sempre creativa e artistica".
Perché l'evangelizzazione fatica a seguire questa strada? Perché la riflessione e la produzione culturale di segno cattolico è più di carattere ideologico (morale, apologetico) che artistico? Perché così pochi capolavori?
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sabato 3 novembre 2012
San Nonno
2 novembre, memoria dei defunti. Andiamo a trovare nonno Francesco al cimitero di Costano, vicino Assisi.
I bimbi scrivono dei biglietti da lasciare nella cappellina.
"Ciao nonno, sono io che ti parlo!" - c'è scritto in uno dei fogli, insieme a "Ti voglio bene" e "Ti amo".
Che colpo al cuore questa invocazione, che ha sciolto il nodo delle lacrime.
L'altro biglietto è a forma di barchetta, e campeggia la scritta: "San Nonno Francesco".
Il legame tra la festa di Ognissanti e il giorno dei defunti, chi avrebbe potuto intenderlo e dirlo meglio?
venerdì 19 ottobre 2012
Nostro figlio
Nei giorni scorsi a Marianella, un quartiere di Napoli al confine con Scampia, è stato ucciso "Lino", Pasquale Romano, un ragazzo di 30 anni. Era sotto casa della sua fidanzata e stava andando a giocare a calcetto con gli amici. La Camorra lo ha scambiato per un altro e lo ha ammazzato - "per sbaglio" - crivellandolo con 14 proiettili.
Nelle ore e nei giorni terribili di dolore, i suoi genitori, Giuseppe e Rita, hanno scritto una lettera straziante indirizzata al ministro dell'Interno, pubblicata oggi dai giornali e rilanciata da molti sulla Rete. Voglio dare anch'io il mio contributo perché il testo è di una forza, una dignità, una bellezza inaudite, e merita di essere diffuso e ricordato.
“Signor ministro dell’Interno, chi le scrive non ha più un futuro. Siamo i genitori di Pasquale Romano, ucciso lunedì scorso mentre con i suoi trent’anni, che tali rimarranno per sempre nella nostra memoria, con i suoi progetti per il futuro, con la sua voglia di vivere, usciva da casa della sua fidanzata, per andare a giocare a calcetto.
Nostro figlio era una persona normale, per noi genitori sicuramente speciale. Aveva un lavoro. Aveva progetti. Voleva avere una famiglia tutta sua, da costruire con le sue forze. E, invece, la sua vita gli è stata strappata sulla pubblica via. Al confine con Scampia, in un quartiere che non appartiene più alla comunità del nostro Stato, ma che è irrimediabilmente perduto. Consegnato a chi avvelena migliaia di giovani, uccidendoli giorno dopo giorno, lasciato in mano a chi, di fatto, ha in mano la vita di noi tutti, decidendo se dobbiamo vivere o morire. Hanno ucciso nostro figlio. Da quella sera nel nostro cammino non c’è più un orizzonte, e se ci voltiamo indietro non vediamo più l’orma dei nostri passi.
Signor Ministro, le chiediamo perché. Le chiediamo com’è possibile perdere così la vita in questo modo. Le chiediamo perché, in questo posto maledetto, si continua a uccidere e a uccidere ancora innocenti, che muoiono perché escono di casa, vanno a prendere i figli a scuola, tornano dalla spesa o si affacciano da un balcone. Che senso ha morire così? Che senso ha morire a trent’anni? Che senso può avere la nostra disperazione di genitori a cui è stato strappato dal cuore un figlio, solo perché si ostinano a dire che era «nel posto sbagliato al momento sbagliato»? Nostro figlio, invece, era al posto giusto al momento giusto.
Ella può ancora garantire alle persone di avere il diritto a vivere e di muoversi per strada senza guardarsi intorno e senza preoccuparsi delle ombre? Non le pesa tutto questo? Ella è a conoscenza del fatto che sono già più di seicento le persone uccise per «sbaglio» (un termine orribile) dalla criminalità? Questa crudele lista dovrà continuare ancora? Abbiamo perso un figlio. E non ci sono parole per definire il senso del dolore che proviamo da poche ore ma che ci sembra davvero antico. Le chiediamo giustizia. E una sicurezza che qui non esiste ancora, e che forse non è mai esistita. Le chiediamo ancora di provvedere affinché tutto questo non abbia a ripetersi mai più. Signor Ministro, non esiste nella nostra lingua, e nemmeno nelle altre, alcun termine per definire chi perde un figlio. Una condizione che non è stata mai immaginata, ma che a Scampia è invece all’ordine del giorno”.
Anche Rosanna, la fidanzata di Lino, ha parlato. E anche lei ha detto parole incredibili, riportate da Massimo Gramellini su La Stampa: «Non bisogna avere paura dei camorristi. Sono loro che devono avere paura di noi. Noi dobbiamo continuare a uscire per la strada a testa alta. Sono loro che si devono nascondere. Noi siamo di più».
Noi siamo di più. Figli, madri e padri. Fratelli, amici, fidanzati. Sposi futuri, presenti o passati. Persone normali eppure per qualcuno sicuramente speciali. Al posto giusto al momento giusto. Malgrado tutto. A testa alta.
Una preghiera e un grazie per Lino, Rosanna, Giuseppe e Rita.
martedì 2 ottobre 2012
A che serve studiare la storia?
"Ma dico io, a che serve studiare la storia? Che ci importa del passato? A noi ci interessa il futuro, semmai!"
Così mia figlia la scorsa domenica a tavola, spalleggiata dalla cugina, entrambe felicemente spavalde, divertite e irriverenti.
"La storia è la montagna da scalare per riuscire a guardare lontano verso il vostro futuro".
Avrei voluto rispondere così, ma non mi sono venute le parole.
Ho evitato, però, e ne sono contento, il discorso moraleggiante sul dovere di studiare, e l' historia magistra vitae, e "mamma mia in che tempi viviamo", e "questi giovani di oggi dove andranno a finire"....
Avranno modo e tempo per scalare la montagna.
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