Personalmente egli non aveva mai avuto nulla contro gli ebrei. Disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di aver obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge. Un cittadino ligio alla legge. Ma quello che per Eichmann era un lavoro giornaliero, monoto, con i suoi alti e bassi, per gli ebrei era letteralmente la fine del mondo. Alla fine, per lui, si trattò di sfortuna: "Il suddito di un governo buono è fortunato, il suddito di un governo cattivo è sfortunato: io non ho avuto fortuna". Anzi, la bravura con cui il suo ufficio sapeva coordinare le evacuazione e le deportazioni, aveva persino aiutato le vittime, aveva "alleviato le loro sofferenze". Se la cosa si doveva fare, disse, era meglio farla bene e con ordine. "Io non sono il mostro che si è voluto fare di me. Io sono vittima di un equivoco". La sua colpa veniva dall'obbedienza, che è sempre stata esaltata come una virtù. Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica che questo nuovo tipo di criminale commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male.
Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.
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