lunedì 31 marzo 2008

Mi accorsi che era la Verità

"Vedi, io sono un'anima che passa per questo mondo. Ho visto tante cose belle e buone e sono stata attratta solo da quelle. Un giorno (indefinito giorno) ho visto una luce. Mi parve più bella delle altre cose belle e la seguii. Mi accorsi che era la Verità".

Pochi giorni fa è morta Chiara Lubich, fondatrice del movimento religioso dei Focolari. La rivista del movimento, Città Nuova, le dedica ovviamente un numero monografico che inizio a leggere con il desiderio, e la certezza, di trovarvi qualcosa di grande e di bello. E infatti mi basta girare la pagina di copertina per trovare queste poche, semplici, splendide righe da una lettera di degli anni '40. "Semplicemente Chiara", come titola l'editoriale della redazione che apre il giornale: "il suo nome definiva al meglio la sua personalità, la sua vocazione, la sua missione".

Un buon "Osservatore"

Torno a complimentarmi con il nuovo corso dell' Osservatore Romano sotto la guida del direttore Giovanni Maria Vian e del vicedirettore Carlo Di Cicco. Venerdì 28 marzo editoriale di prima pagina sulla "Spe Salvi" a firma Aldo Schiavone, direttore dell'Istituto italiano di Scienze Umane. Ora, non solo l'articolo contiene insieme ad elogi anche dubbi e perplessità rispetto alle riflessioni contenute nell'enciclica (e già questo sa di incredibile), ma addirittura Schiavone si era distinto nelle settimane scorse per un editoriale durissimo su La Repubblica nei confronti della Chiesa e delle sue ingerenze ("Il pericolo dell'ondata neoguelfa"). Offrire a lui la prima pagina dell'Osservatore mi sembra un segno di libertà intellettuale e apertura mentale difficile da rintracciare su altre testate, e non solo cattoliche.

Nello stesso numero, a conferma di quanto detto, l'intera pagina 7 dedicata a 2 martiri sudamericani, il vescovo Oscar Romero - con un pezzo a firma di Mons. Vincenzo Paglia - e Marianela Garcìa-Villas, l'avvocata dei poveri - con articolo di Luigi Bettazzi, il vescovo più "comunista" d'Italia. Ancora, recentemente, un'altra prima pagina sul tema dell'acqua firmata niente meno che da Riccardo Petrella, uno che stava troppo a sinistra persino per il presidente rifondarolo della regione puglia Nichi Vendola. Ovviamente non mancano gli interventi di segno opposto, ma questo è più...normale.

A differenza degli uccelli

Austerlitz di W. G. Sebald, l'ho accennato nel primo post dedicato a questo libro, è anche un romanzo sull’architettura, o meglio su cosa costruiscono gli uomini, come lo costruiscono e soprattutto perché: «forse sono proprio i nostri progetti più ambiziosi a tradire maggiormente il grado della nostra insicurezza». Dalle grandi stazioni ferroviarie come quella centrale di Anversa, «cattedrale consacrata al commercio e al traffico mondiali», alle imponenti fortificazioni difensive, la «follia del sistema assedio-fortificazione»: «le fortezze più imponenti attirano, com’è nella natura delle cose, anche le forze nemiche più imponenti…quanto più ci si trincera, tanto più risolutamente ci si mette sulla difensiva, costretti alla fine ad assistere…a come le truppe nemiche, aprendosi altrove una zona di combattimento scelta da loro, ignorino bellamente le fortificazioni». Dai lager come quello di Fort Breendonk, divenuto poi museo della Resistenza belga, al ghetto di Theresienstadt, la città che il Führer aveva regalato agli ebrei, come recitava la pubblicistica nazista. Alla nuova biblioteca nazionale di Parigi, con le sue quattro gigantesche, babeliche, torri di vetro. «Noi, a differenza degli uccelli che per millenni costruiscono sempre lo stesso nido, siamo inclini a spingere le nostre imprese ben oltre ogni ragionevole limite».

L'abisso che nessun raggio di luce...

Ho finito di leggere nei giorni scorsi “Austerlitz”, di W.G. Sebald: un libro bello, duro, vero, serio (vedi il post del 12 marzo). Il romanzo – pubblicato nel 2001, l'anno in cui muore l’autore - racconta la storia di Jacques Austerlitz, professore di storia dell’architettura che vive a Londra, privo di affetti e povero di amicizie, che ad un certo punto della sua vita si mette alla ricerca delle proprie origini. Scopre così di essere giunto a Londra a durante la guerra, a 4 anni e mezzo, con uno di quei convogli di bambini che dall’Europa centrale partivano per l’Inghilterra, mentre i genitori venivano deportati nei campi di concentramento e di sterminio.

Ma Austerlitz non è solo un romanzo sulla tragedia e l’orrore della guerra e del nazismo. E’ un romanzo sulla memoria e sull’oblio. L’oblio come condanna, come voragine («l’oscurità…si fa più fitta al pensiero di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno»). L’oblio come difesa dalla memoria del dolore, «autocensura del pensiero», rimozione del male («Notavo in quel momento quanto poco esercitata fosse la mia memoria e quanti sforzi avessi profuso, invece, per non ricordare nulla»)

Un romanzo sulla storia e sul tempo che, come insegna T.S. Eliot, non esiste se la vita non ha senso (“senza significato non c’è tempo”). Scompare, si ripiega: «Spesso rimango disteso qui fino a tarda sera e sento il tempo ripiegarsi dentro di me». Si cancella: «Per Austerlitz esistevano momenti senza né inizio né fine…l’intera sua vita gli appariva talvolta come un punto cieco senza durata». E con il tempo la propria storia, identità, personalità: «Sentivo di non possedere realmente né memoria né raziocinio, né un’esistenza nel senso vero del termine, di non aver fatto tutta la vita che cancellarmi volgendo le spalle al mondo e a me stesso». «Una volta, chissà quando nel passato, ho commesso un errore, pensai, e adesso mi ritrovo in una vita che non è mia…avevo la continua sensazione che accanto a me camminasse qualcun altro». Fino all’oblio di sé: «Nella testa non sentivo altro che le quattro pareti inaridite del mio cervello»

La voragine in cui scompare il tempo è anche l’abisso di solitudine in cui sprofonda l’uomo: «Tutto suscita in me la sensazione dell’isolamento, di non avere più terreno sotto i piedi». «Capii a poco a poco in quale isolamento vivessi e avessi sempre vissuto…Né mai mi sono sentito parte di una classe, di una categoria professionale o di una confessione religiosa». E ancora: «Mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto». Una solitudine non solo subita ma in qualche modo voluta, auto-inflitta, quando «di fronte al cambiamento in meglio che avrebbe potuto prodursi allora nella mia vita (una donna, l’amore), io non seppi opporre altro che una cieca paura».

Non resta che la consapevolezza «di essere sempre vissuto…in uno stato di assoluta disperazione». Una consapevolezza, però, che non salva: «il raziocinio non riusciva a spuntarla contro quella sensazione di ripudio e di annientamento». Si sta, alla fine, di fronte alla vita come sul bordo di una cava abbandonata, a guardare l’abisso che si spalanca sotto i piedi: «Davvero orrido era vedere che a un passo dal terreno solido si spalancava un simile vuoto, comprendere che non vi era transizione alcuna, ma solo quella linea di confine, da un lato la vita nella sua ovvietà e dall’altro, di questa vita, l’inimmaginabile antitesi». «L’abisso, che nessun raggio di luce riesce ad attingere…»

mercoledì 26 marzo 2008

Il compito dell'uomo

Non conoscevo il gesuita francese François Varillon prima di leggere le recensioni di Luca Doninelli su Il Giornale di oggi e quella di Antonio Spadaro su BombaCarta. E ora dovrò aggiungere anche questo libro – la sua biografia intitolata “Traversate di un credente", a cura di Charles Ehlinger, Jaka Book - alla lista di quelli da acquistare o farmi regalare.

Scrive Varillon, riportato da Doninelli: «Il compito dell’uomo è fare l’uomo». «Qualunque sia la nostra condizione - sposati, celibi - la nostra età, il nostro sesso, la nostra professione, si tratta sempre, direttamente o indirettamente, di fare in modo che l’uomo sia, perché l’uomo non è cosa fatta. Un mondo già fatto sarebbe un mondo di cose; un uomo già fatto sarebbe una cosa fra le cose, sarebbe insomma una natura fra le altre».

E ancora: «Penso di essere più attaccato che distaccato. Ora, il distacco è al centro della vita cristiana, non ha senso se non in rapporto all’attaccamento. Non mi fiderei di un religioso che dicesse di essere distaccato, puramente e semplicemente. Sarei portato a concludere che non è un uomo e, se non è un uomo, non vedo bene come potrebbe essere un amico di Dio».

Sulla ragione e l’esperienza: «L’esperienza è l’essenziale, il punto di partenza di tutto. Ma (...) bisogna spiegare che cosa s’intende. L’esperienza, ciò che i moderni chiamano il vissuto, il vissuto della fede, comporta un aspetto razionale (...). Un vissuto che non ha riferimenti alla ragione è un vissuto animale. E la ragione, se non vuole essere alienante, deve partire dall’esperienza».

Sono esempi – chiosa Doninelli - di un modo cristiano (raro, aggiungo io) di usare la ragione. Integro, coraggioso, spalancato. Senza negare né trascurare nulla di ciò che l’uomo è, compresi i suoi limiti e persino i suoi peccati.

venerdì 21 marzo 2008

Faciò

Elisa, 4 anni, racconta una storia e prova il passato remoto del verbo fare, terza persona singolare: «faciò». Spericolata.

giovedì 20 marzo 2008

I grandi e i geni

In un articolo di Giovanni Casoli su Città Nuova dedicato a Caravaggio, leggo questa «differenza tra un grande e un genio», che merita assolutamente di essere trascritta:

«Il grande - mettiamo un Rubens, o in un altro campo un Petrarca, un Boccaccio - tu lo guardi, lo leggi, vi ritorni anche per tutta la vita, perchè ha qualcosa da dirti sempre. Il genio no, ti sequestra e ti sospinge: che sia Caravaggio o Shakespeare è lui che ti guarda e ti legge, sempre e oltre ogni differenza di epoca, più vivo lui di te, più incatturabile dell'aria ed eccedente ogni banale o profonda definizione».

martedì 18 marzo 2008

La lingua dei rumeni

Attaccando le figurine dei calciatori:
- Questo giocatore viene dalla Romania, Giosuè
- Allora è della Roma!
- No...la Romania è un Paese
- Ma in Romania parlano...romanesco. Magnà...

lunedì 17 marzo 2008

Aggiungio

Giosuè: "Io aggiungio".

Voce del verbo aggiungere. Non fa una piega.

mercoledì 12 marzo 2008

Ma basso quanto?

Agenzia Agi delle ore 15.30 di oggi. Titolo: "In amore chi è basso è più geloso".
Lo sostiene uno studio delle Università di Groningen e Valencia, un'indagine sui sentimenti di gelosia condotta su un campione di 500 spagnoli e olandesi.

Vabbè, dico io, ma basso quanto?

ps. speriamo che mia moglie non legga questo post...

La pioggia e la nevica

Giosuè ed Elisa disegnano sul tavolino in salotto. Lei fa a lui: "che disegni?" "La pioggia" risponde lui. "E tu?" "La nevica" "Ma si dice neve!" "No, si dice nevica!" A quel punto Elisa si alza e va dalla madre col suo foglio in mano: "Ti piace, mamma?" "Sì, amore, hai fatto la neve?" "No, mamma, è la nevica". E se ne va. La piccola ha del carattere.

La Chiesa del profondo

"La vera Chiesa, la Chiesa del profondo, (...) è quella delle anime". Così l'altro ieri il cardinale Bagnasco nella sua prolusione al consiglio permanente della Cei, dinanzi agli altri vescovi (e ai media di tutto il Paese), a proposito delle ricerche sociologiche e delle rilevazioni demoscopiche che cercano di "misurare" la presenza e il peso della Chiesa nella società italiana. In realtà, mi pare di capire, si voleva replicare (ma era proprio necessario? la lingua batte dove il dente duole?) a quei sondaggi che nei mesi scorsi avevano messo in dubbio il gradimento degli italiani per l'istituzione-Chiesa. Ma la frase del Cardinale, che è una citazione del teologo Romano Guardini, a me piace in "misura" straordinaria.

Epperò un mio amico mi fa, a smontare la mia soddisfazione complessiva per il documento del presidente della Cei: "Ma il cardinale ha parlato di Gesù? Perchè di tutto il resto non me ne frega niente!". E allora ho fatto una cosa che non dovrebbe farsi, perchè usava farla Antonio Socci per dire che i vescovi "communisti" non parlano di Gesù ma dei "probblemi" della società. Ho contato quante volte ricorre la parola Gesù - ed altre - nel testo di Bagnasco. Ecco i risultati. A voi il giudizio:

Gesù: 3 volte
Cristo: 2
Dio: 8 (ma 2 volte per dire "popolo di Dio", che vale Chiesa...)
Chiesa: 19
Papa: 9
Benedetto XVI: 14
Santo Padre: 3
Spirito Santo: 3
Signore: 2
Lui: 2
Maria: 1

Quando i libri ti somigliano

E' sorprendente come un libro possa assomigliare a chi te lo ha donato. Un mio carissimo amico mi ha regalato pochi giorni fa il romanzo di uno scrittore tedesco che non conoscevo, Winfried Sebald, "Austerliz", di cui il noto e severo critico Pietro Citati ha detto: "uno dei pochissimi grandi libri concepiti e composti negli ultimi decenni".

Ho iniziato a leggere il romanzo e mi ha subito impressionato trovare nei personaggi e nelle ambientazioni dei riferimenti "precisi" alla personalità, alle passioni e alla storia del mio amico. I luoghi del Nord Europa in cui si svolge la storia, almeno nelle prime pagine: il Belgio e la città di Anversa. La marcata consapevolezza culturale dei personaggi e dei loro dialoghi. Ma soprattutto, la passione per i luoghi fisici e l'architettura in particolare, che nel libro appare come motore narrativo oltre che filo conduttore. Tutti questi caratteri disegnano con precisione - almeno nella mia mente - il profilo del mio caro amico Mauro. E sento che mi fa piacere abbandonarmi a questa lettura - oltre che per la bellezza del romanzo che già si intuisce - perchè è come se mi addentrassi ulteriormente nella conoscenza del mio amico, nel suo mondo personale, interiore, ad una profondità che solo la letteratura - quando è vera - sa regalare.

domenica 9 marzo 2008

Il fugilato

- Papà, lo sai che il mio amico Michele ha i guanti da fugilato?
- i guanti da cosa?
- da fugilato!

Giosuè, 5 anni e mezzo. Pugilato


(Foto da FLICKR, creative commons, Jared Kelly)

sabato 8 marzo 2008

Musifoni


"Nonnaaaa, i musifoni sono freddi!"

Elisa, 4 anni e mezzo. Termosifoni.



(Foto da FLICKR, creative commons, dhinus)

Il padre corniciaio

Per la rivista delle Acli, dove lavoro, ho scritto un pezzo dedicato alla "vita da padri". Per farlo ho intervistato cinque papà volutamente e assolutamente normali, comuni, con figli grandi o piccoli, cui ho chiesto di raccontare il tempo che passano con loro. Da ognuno ho ascoltato cose grandi, o forse grande è semplicemente l'uomo nella sua...umanità. Qualcuno mi ha anche commosso. Come Angelo, un amico, papà di 4 figli: Matteo e Lorenzo, di 19 e 18 anni, Maria Chiara di 15 e Alessandro di 11.

«Quand’erano piccoli - mi ha detto - mi sentivo come un vasaio che forma e plasma. Ora che sono grandi il mio compito è più quello del corniciaio. Loro sono dei quadri già fatti e al massimo ti chiedono consigli sulla cornice. Oppure sei come il cavalletto che li sostiene».

Poi il ricordo di un momento bello passato insieme: «Un giorno eravamo in vacanza al mare e Matteo, il grande, era in un periodo un po’ difficile. Non usciva di casa, se ne stava chiuso in se stesso. Allora me lo sono portato con me a fare un escursione sugli scogli. Tutta la giornata da soli io e lui. In un posto molto bello, ad Anzio, famoso perché puoi trovare l’argilla. Ne abbiamo raccolta un po’ e ce la siamo spalmata addosso. L’abbiamo fatta seccare e poi ci siamo fatti il bagno. Vedi, gli ho detto, a volte anche noi come l’argilla facciamo la crosta fuori, ma basta un po’ d’acqua e si scioglie tutto». «Oppure quella volta che gli scrissi, sul catalogo di una mostra: “tu sei la mia migliore opportunità”. Perché i figli sono l’opportunità che abbiamo di diventare migliori. Dopo qualche tempo, avevamo avuto un periodo difficile tra di noi, lui aveva perso un anno a scuola. Poi io sono stato male, ci siamo riavvicinati. Lui ha ritirato fuori quel catalogo e mi ha letto quella frase, che io ormai non ricordavo più. E’ stata una cosa emozionante. E allora passare il tempo con i figli è come seminare. Bisogna avere pazienza e aspettare che arrivi…il tempo giusto».

mercoledì 5 marzo 2008

La vita mi ha sorpesa

"La vita, la vita mi ha sorpesa..."

Paola Turci, diario da Haiti, letto su Vita: "Nel viaggio ho incontrato dolore, abbandono, malattia e solitudine...La morte è ovunque. La sorpresa mi coglie impreparata quando nella chiesa del nuovo ospedale alla messa delle 6 del mattino assisto a un funerale, uno dei tanti che padre Rick (Rick Frechette, da 20 anni tra i poveri di Haiti) officia per i morti dimenticati. La luce del mattino...la voce e le parole... Ecco: sopra il dolore, la morte, sopra ogni cosa qui sento la vita, la speranza, la fede..."

lunedì 3 marzo 2008

Come dire...

Non ho mai amato l'espressione "come dire", usata spesso dalle persone per dare un tono ai loro ragionamenti. Qualche anno fa era diffusissima, soprattutto nei talk show e nei salotti televisivi. Poi fortunatamente l'utilizzo è andato via via scemando (almeno mi pare), sostituita da un'altra interlocuzione: "in qualche modo" o "in qualche misura".

Spiega bene Umberto Santucci, in un articolo recente sul sito della Ferpi:

"Come dire" è legittimo e utile al discorso quando non si trova la parola giusta, e si chiede quasi aiuto all'ascoltatore: non saprei come dire esattamente ciò che sto per dirti, quindi se tu lo sai vienimi in aiuto. «Vorrei – come dire? – un mucchietto, una manciata, di castagne…» Questo è l'uso corretto, perché non so come definire quel tanto di castagne che desidero. L'interlocutore mi aiuta: «Ne vuole un etto? Dieci castagne? Un sacchetto così?». Se invece dico «mi dà un – come dire? – un sacchetto di castagne?» l'uso non è corretto, perché il sacchetto si dice proprio così.

"Come dire" può essere usato anche per virgolettare una locuzione. «Il trucco della ragazza era, come dire, un po' vistoso» fa pensare che la ragazza sia non solo un po', ma pesantemente truccata. Gli equivalenti sono "per così dire", "così detto". «Il così detto onorevole» sta a significare che l'uomo politico ha avuto un comportamente per niente degno di onore.

Il "come dire" piace molto a chi lo usa, sembra dare un certo tono al suo discorso, come se ciò che pensa fosse talmente alto e complesso da non trovare le parole adatte se non – come dire? – in modo un po' laborioso e sofferto. Roberto Vacca, il noto romanziere futurologo, ha imposto ai suoi collaboratori la regola che ogni volta che qualcuno dice "come dire" deve mettere un euro in un salvadanaio, che dopo un po' viene usato per andare tutti insieme in pizzeria. Pare che ci siano andati spesso.

Famìgghia

"La famiglia è il test della libertà, perché è l'unica cosa che l'uomo libero fa da sé e per sé" (Gilbert Keith Chesterton)

Vero e ardito come solo Chesterton sa essere. Aggiungerei che il risultato del test non è per nulla scontato...

domenica 2 marzo 2008

Favola moralista

Dal libro Le musiche della vita.. (ultimi 2 post) traggo questa storiella che dedico con piacere al moralista per il suo archivio. Titolo originale: La furba illusione.

"Nel villaggio si stava organizzando una grande festa e ognuno doveva contribuire versando una bottiglia di vino in una botte gigantesca. Quando iniziò il banchetto, dalla botte usci soltanto acqua. Uno degli abitanti del villaggio aveva avuto questa idea: se verserò una bottiglia d'acqua in questa botte così enorme, nessuno se ne accorgerà. Ma non aveva pensato che tutti gli altri avrebbero avuto la stessa idea..."



(Foto da Flickr, creative commons, kk+)

sabato 1 marzo 2008

La paura di essere felici

C’è una sola grande paura che tutti abbiamo. La grande terribile paura di essere felici.

Prendo la provocazione dal libro della psicologa Elsa Belotti postato prima. “Mi va tutto bene…mi succederà qualcosa”. La frase è probabilmente molto antica e rivela la paura che, se si è felici, succederà qualcosa di male. A livello inconscio, spiega l’autrice, si teme che qualcuno dall’alto, vedendo la nostra felicità, avrà il gusto di rovinarcela. L’origine di questa paura va ricercata nel mondo infantile. Il bambino sperimenta molto presto che quando fa qualcosa di piacevole, spesso un genitore interviene. Si registra quindi, fin da piccoli, l’intervento di un grande come punizione o negazione di un piacere. Se gli interventi sono troppo frequenti e non misurati con altrettanti permessi al piacere, ogni volta che il bambino sta per permettersi di essere felice, temerà un intervento frustante dall’alto.

Ora, dice la Belotti, il rischio è rimanere bloccati – nella “pancia” – a questa dinamica infantile. E vivere da grandi ogni possibilità di felicità e di piacere con lo stesso timore. C’è persino chi prova rassicurazione ed essere triste o depresso perché in tal modo non deve più temere un intervento punitivo: lo precede.

Anche con Dio – aggiunge – sperimentiamo la stessa dinamica. Un genitore sadico che, vedendo dall’alto che siamo sereni e ci permettiamo la gioia, interverrà in modo punitivo. “Cosa ho fatto di male per meritare questo?”, “perché Dio se la prende con me?”, sono le frasi rivelatrici. Ma è un grave torto attribuire a Dio la nostra incapacità di darci il permesso di essere felici, il desiderio punitivo che in realtà è dentro di noi (si chiama proiezione).

Il muro di cartone

Non c’è nulla come il cambiamento che ci spaventa, ci minaccia, ci sconvolge, ci trattiene, ci ferisce, ci interroga. È una delle idee portanti del libro che ho finito di leggere in questi giorni: Le musiche della vita e la nostra complicità (Edizioni Celtis), un testo facile ma ricco di spunti scritto dalla psicologa Elsa Belotti insieme al marito Enzo bigi.

È più facile ammalarsi – viene detto -, soffrire, forse anche morire pur di non affrontare la fatica del cambiamento. Eppure non c’è aspetto delle vita che non dipenda dalla legge del cambiamento. La vita, cioè, “si affida” al cambiamento, quasi vi si identifica. Conseguenza logica sarebbe per noi il fidarsi del cambiamento. Ma nella realtà non è così. Il cambiamento è il nostro nemico. Tutte le nostre forze, che dovrebbero essere impegnate ad affrontare cambiamenti per meglio adattarci alla vita, alla realtà, sono invece concentrate nel mantenere la situazione tale e quale. Non si evita a rovinarci anche il piacere per non affrontare mutamenti.

Temiamo il cambiamento perché lo sentiamo come un muro enorme contro il quale andremo a sbattere e ci faremo male. In realtà – sostengono gli autori – il cambiamento è un muro sottile di cartone che si abbatte con una spallata: basta la decisione di farlo. Dall’altra parte c’è un nuovo mondo, un nuovo orizzonte.