lunedì 21 settembre 2015

Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente


Conosco poco, e solo di fama, Edmondo De Amicis, lo scrittore di "Cuore". Non conoscevo o non ricordavo la sua produzione letteraria e culturale legata al tema dell'immigrazione.  Non avevo mai sentito questa poesia - Gli emigranti - del 1882, che De Amicis dedica alla partenza di un gruppo di italiani dal porto di Genova.

Al netto della retorica tardo-risorgimentale, dell'intento pedagogico e sociologico dei suoi versi "socialisti" e patriottici, c'è la capacità di riconoscere e raccontare in endecasillabi - alcuni particolarmente incisivi - l'umanità dolente che ancora oggi vediamo partire da altri porti e con imbarcazioni ancora più precarie (Nessun naviglio maestoso e lento): Tutti vanno a soffrir, molti a morire.


Cogli occhi spenti, con le guance cave
Pallidi, in atto addolorato e grave, 
Sorreggendo le donne affrante e smorte, 
Ascendono la nave 
Come s’ascende il palco de la morte

E ognun sul petto trepido si serra
Tutto quel che possiede su la terra. 
Altri un misero involto, altri un patito 
Bimbo, che gli s’afferra 
Al collo, dalle immense acque atterrito.

Salgono in lunga fila, umili e muti
E sopra i volti appar bruni e sparuti 
Umido ancora il desolato affanno 
Degli estremi saluti 
Dati ai monti che più non rivedranno.

Salgono, e ognuno la pupilla mesta 
Sulla ricca e gentil Genova arresta, 
Intento in atto di stupor profondo, 
Come sopra una festa
Fisserebbe lo sguardo un moribondo. 

Ammonticchiati là come giumenti 
Sulla gelida prua morsa dai venti, 
Migrano a terre inospiti e lontane; 
Laceri e macilenti, 
Varcano i mari per cercar del pane.

Traditi da un mercante menzognero
Vanno, oggetto di scherno allo straniero
Bestie da soma, dispregiati iloti, 
Carne da cimitero
Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.

Vanno, ignari di tutto, ove li porta 
La fame, in terre ove altra gente è morta; 
Come il pezzente cieco o vagabondo
Erra di porta in porta, 
Essi così vanno di mondo in mondo.

Vanno coi figli come un gran tesoro
Celando in petto una moneta d’oro, 
Frutto segreto d’infiniti stenti, 
E le donne con loro, 
Istupidite martiri piangenti

Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora
Il suol che li rifiuta amano ancora
L’amano ancora il maledetto suolo
Che i figli suoi divora, 
Dove sudano mille e campa un solo

E li han nel core in quei solenni istanti
I bei clivi di allegre acque sonanti, 
E le chiesette candide, e i pacati 
Laghi cinti di piante, 
E i villaggi tranquilli ove son nati! 

E ognuno forse sprigionando un grido, 
Se lo potesse, tornerebbe al lido; 
Tornerebbe a morir sopra i nativi 
Monti, nel triste nido 
Dove piangono i suoi vecchi malvivi. 

Addio, poveri vecchi! In men d’un anno 
Rosi dalla miseria e dall’affanno, 
Forse morrete là senza compianto, 
E i figli nol sapranno, 
E andrete ignudi e soli al camposanto

Poveri vecchi, addio! Forse a quest’ora 
Dai muti clivi che il tramonto indora 
La man levate i figli a benedire.... 
Benediteli ancora: 
Tutti vanno a soffrir, molti a morire

Ecco il naviglio maestoso e lento 
Salpa, Genova gira, alita il vento. 
Sul vago lido si distende un velo, 
E il drappello sgomento 
Solleva un grido desolato al cielo.

Chi al lido che dispar tende le braccia. 
Chi nell’involto suo china la faccia, 
Chi versando un’amara onda dagli occhi 
La sua compagna abbraccia, 
Chi supplicando Iddio piega i ginocchi

E il naviglio s’affretta, e il giorno muore, 
E un suon di pianti e d’urli di dolore 
Vagamente confuso al suon dell’onda 
Viene a morir nel core 
De la folla che guarda da la sponda.

Addio, fratelli! Addio, turba dolente! 
Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente
V’allieti il sole il misero viaggio; 
Addio, povera gente, 
Datevi pace e fatevi coraggio. 

Stringete il nodo dei fraterni affetti. 
Riparate dal freddo i fanciulletti, 
Dividetevi i cenci, i soldi, il pane, 
Sfidate uniti e stretti 
L’imperversar de le sciagure umane.




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