Il 9 ottobre scorso alla bibioteca Vallicelliana ho assistito ad una conferenza del ciclo "Le vie della conoscenza" dedicata al rapporto tra meditazione profonda e preghiera cristiana. Relatore Marco Guzzi. Ne offro qui una sintesi ai fini di una maggiore mia chiarezza e a beneficio - si spera - di qualche malcapitato lettore.
Ogni tradizione spirituale - ha esordito Marco - ci dice che la nostra esperienza sensibile ordinaria e l’elaborazione concettuale che ne deriva è in qualche misura erronea, parziale, distorta, illusoria. Non è, insomma, la realtà. Per la tradizione ebraico-cristiana il mondo – con dentro la morte, il male, la malattia – è una realtà corrotta, di tenebre e ignoranza, sulla quale non possiamo fondare la nostra vita. San Paolo esorta in continuazione a non conformare la nostra mente e la nostra vita a questo mondo, ma a rinnovare la nostra mente. Noi purtroppo traduciamo tutto in termini moralistici. La stessa idea marxista dell’alienazione è frutto di questa idea religiosa originaria. Così la psicoanalisi è un processo di “disalienzazione”. Quando ci dimentichiamo di essere alienati vuol dire che lo siamo del tutto.
Se il presupposto è questo,cosa desideriamo quando ci mettiamo in meditazione? Desideriamo uscire da questo stato ordinario di sofferenza e di alienazione. Non a caso meditazione e medicina hanno la stessa radice, med, curare.
La cura consiste in due passaggi fondamentali: svuotarsi e lasciarsi rifare, ricostruire, ristorare (Matteo 11,28: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò...)
Nella fase di svuotamento, riconosciamo le voci distorte che vogliono occupare il nostro cuore. Per metterle a tacere le devi prima riconoscere. Se non le vedi vuol dire che ci hai messo una pietra sopra. Riconosco quindi ciò che c’è di negativo e non mi ci identifico. Ma ci vuole silenzio per riconoscere le voci. Occorre osservare ciò che ci abita, lasciarlo emergere, senza rimuoverlo, e lasciarlo andare. La psicologia ci può aiutare a riconoscere gli automatismi mentali, ed evitare che la meditazione diventi rimozione. Un sano lavoro psicologico svolge una funzione purificatrice essenziale sulla pratica spirituale per evitare che diventi, come tende sempre, una forma di difesa.
Più ci dis-identifichiamo, più conquistiamo stati di pacificazione e integrazione. Scendo al di sotto dei vaneggiamenti della mente, in uno spazio di libertà e di silenzio in cui scopro di non essere del tutto determinato dagli automatismi ereditati dal passato. Questa libertà è gaudio, sollievo, annuncio che io sono qualcos’altro da tutto ciò che mi ferisce e mi confonde. Scopriamo di essere abissali. Liberi perché trascendenti le cose del mondo. Trascendenti perché aperti all’infinito.
Questa condizione è ciò che l’uomo può conoscere da sé. La ritroviamo in ogni tradizione. L’uomo da solo presagisce la sua infinità, la sua natura spirituale, trascendente. Ma resta ancora indefinito moltissimo. Chi sono io in questa apertura all’infinito? C’è ancora un io? Cosa o chi è questo infinito? Sentiamo che è una fonte, ma cos’è? Chi è? Non possiamo farne esperienza ‘naturalmente’. Non sappiamo se c’è un disegno salvifico. Non sappiamo la causa e il senso del dolore e della morte…
Giunti cioè alla mortificazione dell’uomo vecchio, silenziate le parti negative, raggiunta la vacuità della mente, ognuno di noi farà esperienza di ciò cui crede, ciò cui già prima avrà aderito per fede. Non esiste cioè un’esperienza spirituale naturale. C’è sempre una rivelazione. Si fa esperienza di ciò cui si decide liberamente di credere. Non si può vivere un’esperienza spirituale senza il rischio della fede, dell’adesione umile e concreta ad una fede storica. A noi non piace scegliere: perché rinunciare all’infinità del possibile? Ma la vera libertà è scegliere il possibile concreto. Non si superano le religioni storiche. I santi sono radicati nelle più modeste tradizioni spirituali. Le sintesi sono illusorie, sono l’opposto del dialogo. E’ la vera morte dell’ego: farai esperienza solo di ciò cui avrai creduto.
Il tuo nuovo io ‘ristorato’ sarò dunque costituito dalle parole cui avrai dato il cuore, dalle parole cui hai creduto. Il mio io viene riformulato dalle parole bene-dette di Dio, in quel dialogo che è la preghiera cristiana. Quindi la meditazione silenziosa non è la meta della preghiera ma un continuo passaggio. La meta, l’assoluto, per il cristiano, è la comunione con Dio, la libera comunione tra due persone che si parlano, non il silenzio quindi né l’unità indistinta. E’ un dialogo che si dipana in una storia, nel tempo, ecco perché ho bisogno della preghiera quotidiana, della lectio quotidiana, del pane quotidiano. Per non dimenticare e ridire ogni giorno le parole di Dio: "Dicendo le parole che ascolti diventi me"
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