mercoledì 26 maggio 2010

Dovunque


"Cercava l'invisibile acquattato nel visibile".

A proposito di Giorgio Manganelli (dall'inserto Domenica del Sole 24 Ore). Scrittore, giornalista, inviato, Manganelli era "attratto dall'altrove":

«Dovunque siamo - diceva -, noi siamo "lontano"».


(immagine da radioScrigno, archivio di Radio Rai)



martedì 25 maggio 2010

Ma ho visto una volta un ficodindia


L'immenso desiderio ch'empie un solo verso io
canto senza metro.


Sembra Walt Whitman ma non lo è. È Marco Statzu, anzi don Marco Statzu, giovane sacerdote e poeta che ho imparato a conoscere sul web e che ha pubblicato per FaraEditore un piccolo libricino di poesie intitolato Tra disastri e desideri. Più che una raccolta di poesie, una semina - è scritto - di parole sparse al vento / di cui non conosco l'origine.

Ventoso è il mio cuore / come la mia terra - scrive in una poesia Marco (oliva / scampata alla bacchiatura), che è nato e vive in Sardegna: Sono nato in una casa / piena di colori. Sono tra i versi più freschi, immediati e leggeri che prediligo, come la piccola deliziosa poesia intitolata Esercizi di conversione, che ricorda il cristianesimo creaturale di Emily Dickinson:

Dove va la zanzara di giorno
all'oscuro di tutti
io voglio andare

E poi ancora, tra le poesie più compiute, Luce da luce:

Puoi condurmi dove il cielo s'inazzurra? /... /
Dove il giallo dei campi sfavilla? / ... /
Dove l'aria s'arrossa
pennellando le fresche sorridenti sere d'autunno? /... /
Puoi condurmi dove il filo d'erba
il suo verde barbaglio riverbera? //
Alla sorgente della Luce
là dove tutto è lucore d'abbaglio emanante


Quelle di don Marco sono poesie religiose anche quando, o soprattutto quando, non parlano di religione, o meglio quando traducono la religione - i suoi concetti - in movimenti della natura:

La redenzione
me l'immagino
come la pioggia:
lo scendere lento
sull'asfalto lascia pozzanghere.
Ma ho visto una volta
un ficodindia ch'è nato
su una grondaia


O ancora, per finire, questi versi che dicono, senza dirla, l'azione della grazia di Dio sul campo verdissimo / ma pietroso che molto spesso è la nostra (la mia) anima.

Una terra non adatta
ad essere coltivata
è sempre pronta invece
perchè le pecore vi bruchino


(Foto da Flickr/creativecommons: Live Zakynthos)

lunedì 24 maggio 2010

L'uomo che verrà


"A me mi comanda solo Dio, e siamo già abbastanza"

Se non lo avete già fatto, andate a vedere (se lo trovate ancora nelle sale...) "L'uomo che verrà" di Giorgio Diritti, vincitore dei David di Donatello 2010 per il miglior film, miglior produttore, miglior fonico di presa diretta; gran premio della giuria, premio del pubblico e premio "la meglio gioventù" al Festival internazionale del film di Roma 2009. Mi colpì a gennaio, quando la lessi, la recensione del critico cinematografico del Corriere della Sera Paolo Mereghetti che parlava senza mezzi termini di un "capolavoro". Ora, dopo averlo visto, mi sento nel mio piccolo di condividere quel giudizio.

L'uomo che verrà, ambientato nelle colline bolognesi del 1943, narra la vicenda tragica dell'eccidio nazista di Marzabotto, quando i tedeschi in ritirata massacrarono per ritorsione 770 persone, quasi tutte donne, anziani e bambini. Protagoniste di questo racconto sono le vittime, le famiglie contadine di Monte Sole. Il cast è formato quasi tutto da attori non protagonisti, l'ambiente è ricostruito alla perfezione, il film è recitato in dialetto con i sottotitoli, ma dopo un po' non te ne accorgi più perchè impari la lingua di quelle colline, i meravigliosi colori dei campi, dei prati, dei fienili.

Famiglie contadini povere, ma straordinariamente fiere, dure e dignitose. La citazione che apre il post è del capo famiglia, stanco dei soprusi di fascisti e nazisti - "Tanto non mi possono ammazzare due volte!" - che alla fine dovrà arrendersi anche lui all'orrore della guerra.

Ma la vera protagonista è Martina, una bambina di 8 anni che ha smesso di parlare, e che ci racconta la tragedia con i suoi incredibili occhi. Mentre aspetta la nascita del fratellino nella pancia della madre, una splendida Maya Sansa. E' lui, questo bimbo, che verrà alla luce al culmine della tragedia, l'uomo che verrà. Ardita metafora di speranza di un film emotivamente intenso, rigoroso e onesto, mai retorico, profondamento religioso, straordinariamente girato, con una colonna sonora che continua a farmi venire la pelle d'oca ogni volta che l'ascolto, sul sito ufficiale del film.



mercoledì 12 maggio 2010

Imitatio Christi


"Dobbiamo comprendere che la imitatio Christi non significa copiare la sua vita e, se posso esprimermi così, scimmiottare le sue stigmate, ma in un senso più profondo, che dobbiamo vivere la nostra vita come egli ha vissuto la sua. Imitare la vita di Cristo non è cosa facile, ma è indicibilmente più difficile vivere la propria vita come Cristo ha vissuto la sua".

Carl Gustav Jung (I rapporti della psicoterapia con la cura d'anime, in Opere, Borlinghieri, 1979). Traggo questa citazione dal libro di Massimo Diana.

Mi viene in mente quel celebre racconto del rabbino cui fu chiesto, in punto di morte, se era pronto ad andare all'altro mondo. "Sono pronto - disse il rabbino - perchè dopo tutto non mi verrà chiesto: perché non sei stato Mosè?, ma solo: perché non sei stato te stesso?"




lunedì 10 maggio 2010

Credere alle favole


Leggere le fiabe fa bene (a chi le ascolta e a chi le legge).

Ne sono ancora più convinto dopo aver letto il bel libro di Massimo Diana La saggezza delle fiabe, edito per le Paoline, nella collana Crocevia. “Le fiabe raccontano la nostra storia – dice l’autore nell’introduzione - non parlano d’altro che degli eterni e universali conflitti che ciascuno di noi incontra nel divenire se stesso”. E ancora, le fiabe raccontano “quel percorso – una sorta di viaggio tra prove e pericoli – che ogni uomo o donna è chiamato a compiere per raggiungere la propria maturità o età adulta”. Perchè “tutti, secondo le fiabe, siamo potenzialmente degli eroi”.

Insomma, le fiabe non ci insegnano nulla di nuovo, se non quello che avevamo dimenticato di sapere.

Che la nostra vita, la vita di tutti, è un'avventura. Che nell’esistenza di ciascuno, malgrado regni spesso la confusione e il non senso, c’è invece una meta, un compito preciso. Che questa meta è una maggiore realizzazione umana (diventare noi stessi), una maggiore integrazione, spesso simboleggiata dalle nozze, da leggersi con Jung come coniunctio oppositorum.

Ancora. Le fiabe ci ricordano che questo compito, il compito della nostra realizzazione umana, che pure preme dentro di noi anche inconsciamente, è opera ardua. La coniunctio, la maturità, le nozze sono sempre un’impresa eroica e grandiosa. Ed il percorso è sempre costellato di ostacoli (draghi, streghe ma anche fratelli…). E la strada che dobbiamo fare è sempre quella verso un altro mondo (l’altra parte di noi, quella che normalmente tendiamo a non ascoltare).

Infine, e non è cosa da poco, per riuscire nel processo, nel viaggio - che conosce sempre fasi di buio pesto - bisogna credere che l'impossibile possa realizzarsi, bisogna credere alle intuizioni del cuore. Questa è una condizione imprescindibile, altrimenti il viaggio finisce prima di iniziare. E’ questa fiducia nell’impossibile che mette in moto l’eroe. E l’impossibile si manifesta attraverso le vie più bizzarre, contrarie alle evidenze del mondo. La salvezza si manifesta nei panni di un gatto con gli stivali!

Ed è così che le fiabe ci parlano della nostra vita quotidiana, della vita di tutti. Raccontandoci verità così profonde che non posson esser dette per concetti, ma solo per immagini, storie, emozioni (come fanno la poesia, il mito, la saga). Tale è, per eccellenza, il linguaggio delle fiabe – ha spiegato Massimo Diana nella presentazione del libro cui ho potuto partecipare. Un linguaggio due volte arcaico, perchè appartiene "al mondo dell'infanzia e all’infanzia del mondo" (l’epoca dell’oralità). C’è qualcosa nelle fiabe – ha spiegato - del potere curativo, performativo del sogno, dell’efficacia che viene riconosciuta al sogno dalla psicanalisi. “Le fiabe sono efficaci perchè vere e vere perchè efficaci”.


(nella foto, il gatto con gli stivali nell'immaginazione degli autori del film di animazione Shrek)



giovedì 6 maggio 2010

Il nome perduto


Io sono io
io sono la mente viva
che nessuna lingua morta
è capace di descrivere
il nome perduto
il verbo che sopravvive solo all'infinito
le lettere del mio nome
sono iscritte sotto le palpebre del bambino appena nato.



Sono versi della poetessa Adrienne Rich, che ho tratto da questo testo, dedicato al significato autentico dell'essere giovani: giovane è solo l'uomo nascente.

Io posso nascere ogni giorno ("Ad ogni aurora, il primo uomo") perchè sono vivo (la mente viva) malgrado i pensieri e le parole di morte (la lingua morta) sotto le quali mi lascio seppellire.

Io sono io perchè il mio nome è perduto - "effineffabile", direbbe Eliot - e il mio verbo (il mio essere) sopravvive all'infinito.

Io sono vivo e nasco ogni giorno perchè il segreto ultimo della mia vita (le lettere del mio nome) è iscritto - custodito come un germoglio - sotto le palpebre del bambino appena nato.



(Foto da Flickr/creative commons/Photos8.com)




lunedì 3 maggio 2010

Il primo uomo


Chi è il primo uomo? Tutti lo siamo, ma è un segreto che pochi conoscono.

Luca Doninelli commenta le parole indedite di Albert Camus, poste a didascalia di una foto (il "primo giardino del mondo") ritraente due vecchi salici pieni di nuovi germogli:

"Ad ogni aurora, il primo uomo".



(foto da Flickr, creative commons, roblisameehan: la creazione di Adamo)