lunedì 31 marzo 2008

L'abisso che nessun raggio di luce...

Ho finito di leggere nei giorni scorsi “Austerlitz”, di W.G. Sebald: un libro bello, duro, vero, serio (vedi il post del 12 marzo). Il romanzo – pubblicato nel 2001, l'anno in cui muore l’autore - racconta la storia di Jacques Austerlitz, professore di storia dell’architettura che vive a Londra, privo di affetti e povero di amicizie, che ad un certo punto della sua vita si mette alla ricerca delle proprie origini. Scopre così di essere giunto a Londra a durante la guerra, a 4 anni e mezzo, con uno di quei convogli di bambini che dall’Europa centrale partivano per l’Inghilterra, mentre i genitori venivano deportati nei campi di concentramento e di sterminio.

Ma Austerlitz non è solo un romanzo sulla tragedia e l’orrore della guerra e del nazismo. E’ un romanzo sulla memoria e sull’oblio. L’oblio come condanna, come voragine («l’oscurità…si fa più fitta al pensiero di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno»). L’oblio come difesa dalla memoria del dolore, «autocensura del pensiero», rimozione del male («Notavo in quel momento quanto poco esercitata fosse la mia memoria e quanti sforzi avessi profuso, invece, per non ricordare nulla»)

Un romanzo sulla storia e sul tempo che, come insegna T.S. Eliot, non esiste se la vita non ha senso (“senza significato non c’è tempo”). Scompare, si ripiega: «Spesso rimango disteso qui fino a tarda sera e sento il tempo ripiegarsi dentro di me». Si cancella: «Per Austerlitz esistevano momenti senza né inizio né fine…l’intera sua vita gli appariva talvolta come un punto cieco senza durata». E con il tempo la propria storia, identità, personalità: «Sentivo di non possedere realmente né memoria né raziocinio, né un’esistenza nel senso vero del termine, di non aver fatto tutta la vita che cancellarmi volgendo le spalle al mondo e a me stesso». «Una volta, chissà quando nel passato, ho commesso un errore, pensai, e adesso mi ritrovo in una vita che non è mia…avevo la continua sensazione che accanto a me camminasse qualcun altro». Fino all’oblio di sé: «Nella testa non sentivo altro che le quattro pareti inaridite del mio cervello»

La voragine in cui scompare il tempo è anche l’abisso di solitudine in cui sprofonda l’uomo: «Tutto suscita in me la sensazione dell’isolamento, di non avere più terreno sotto i piedi». «Capii a poco a poco in quale isolamento vivessi e avessi sempre vissuto…Né mai mi sono sentito parte di una classe, di una categoria professionale o di una confessione religiosa». E ancora: «Mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto». Una solitudine non solo subita ma in qualche modo voluta, auto-inflitta, quando «di fronte al cambiamento in meglio che avrebbe potuto prodursi allora nella mia vita (una donna, l’amore), io non seppi opporre altro che una cieca paura».

Non resta che la consapevolezza «di essere sempre vissuto…in uno stato di assoluta disperazione». Una consapevolezza, però, che non salva: «il raziocinio non riusciva a spuntarla contro quella sensazione di ripudio e di annientamento». Si sta, alla fine, di fronte alla vita come sul bordo di una cava abbandonata, a guardare l’abisso che si spalanca sotto i piedi: «Davvero orrido era vedere che a un passo dal terreno solido si spalancava un simile vuoto, comprendere che non vi era transizione alcuna, ma solo quella linea di confine, da un lato la vita nella sua ovvietà e dall’altro, di questa vita, l’inimmaginabile antitesi». «L’abisso, che nessun raggio di luce riesce ad attingere…»

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