Buttate pure via
ogni opera in versi o prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos'è, nella sua essenza, una rosa.
Il libro di Andrea Marcolongo che ho appena ricevuto per regalo - Alla fonte delle parole. 99 etimologie che ci parlano di noi (Mondadori, 2019) - promette benissimo iniziando con questa citazione di Giorgio Caproni, che apre immediatamente mille riflessioni.
Le parole, anche le migliori parole, non possono svelare il mistero delle cose, o almeno non posso svelarlo tutto, non possono esaurirlo. L'essenza delle cose è inesauribile, sfugge alle pretese di oggettivizzazione del linguaggio e del pensiero umano, soprattutto del pensiero maschile.
"La rosa è senza perché" scriveva il mistico Angelus Silesius nel Seicento.
È una verità che i poeti conoscono da sempre, almeno i veri poeti, e non ha nulla a che vedere con il romanticismo stucchevole della rosa (vale anche per il cactus), ma con la relazione vitale tra l'uomo e la realtà, mediata attraverso il linguaggio, la parola, e il silenzio. Una relazione mai scontata (pena la consapevolezza dell'umano), che può assumere i tratti della ricerca, dell'inseguimento, della seduzione o della "costante colluttazione", come osserva Marcolongo nella sua intensa introduzione sul valore militante e resistente dell'indagine etimologia ("De-costruire una parola per ri-costruirci come esseri umani", scolpito).
Ma c'è un tratto di questa relazione che mi ha colpito ulteriormente, e vi ho accennato con l'aggettivo maschile usato più sopra per descrivere le pretese dello sguardo oggettivizzante o totalizzante sulla realtà.
Per spiegare l'approccio del suo libro sulle parole, infatti, l'autrice cita come modello la grande grecista francese Jacqueline de Romilly, autrice a sua volta di un libro intitolato suggestivamente Nel giardino delle parole. "Il suo sguardo", commenta Andrea Marcolongo, non era "mai giudicante ma sempre meravigliato".
Associo istintivamente questa frase a un'altra appena letta in una recente, interessantissima, intervista della giornalista Roberta Scorranese alla psicologa femminista Silvia Vegetti Finzi, che dice a un certo punto, quasi incidentalmente: "Lo sguardo maschile è sempre giudicante".
C'è dunque qualcosa di specificatamente e provvidenzialmente femminile nello sguardo (poetico) che sa penetrare la realtà delle cose (e delle persone), ma senza giudicarle, senza pretenderle di conoscerle interamente, definitivamente, di possederle dunque, di esaurirle e consumarle, ferirle e violarle.
Lo sguardo del poeta sa che persino "dando un nome alle cose, si rischia di ferirle in mezzo al cuore con un colpo irrimediabile" (J. Green, Diario, 1928-1934).
Svelare la realtà è sempre una ri-velazione, un riconoscerne il mistero di cui è continuamente rivestita.
(Il rosone della cattedrale Notre-Dame di Parigi)