Giuseppe Pontiggia è uno degli scrittori che preferisco, per intelligenza, acutezza di sguardo, rigore morale e stilistico, ironia disvelatrice di verità. Ho finito di leggere "Il giocatore invisibile", del 1978, che mi ha regalato maria Cristina per il mio ultimo compleanno (Mondadori, Classici moderni, febbraio 2007). Il protagonista è un professore di filologia classica all'apice della sua carriera, che riceve una stroncatura impietosa e soprattutto anonima ad un suo articolo. Il pretesto è l'etimologia sbagliata della parola "ipocrita". Di lì parte l'affannosa ricerca del nemico misterioso, che porterà al crollo della mascherà di falsità, del castello di certezze culturali e sopratutto esistenziali non del solo protagonista ma
di tutti i personaggi.
«Andando avanti non ci resta che la verità - dice uno dei personaggi al protagonista - . Una compagna odiosa, lo ammetto». «Io non ne ho mai avuto paura» disse il professore. «Lo credo» disse Salutati. «Tu non la conosci. È solo adesso che stai aprendo gli occhi» (p.151).
Mentire, però, resta la soluzione apparentemente più comoda, la soluzione "perfetta", anche quando si scoprono verità sconvolgenti, che si ignoravano o forse si fingeva di ignorare (perché in fondo: «Scopriamo sempre quello che sappiamo già» - p. 56).
«E adesso cosa devo fare?» chiede il professore protagonista all'amico, dopo aver scoperto il tradimento della moglie. «Fare finta di niente. Solo la menzogna è perfetta» (p.178)
Ci si può illudere di controllare il gioco, di guidare la partita, fin quando non arriva la mossa decisiva, lo scacco matto del "giocatore invisibile". «Tu vivi continuando a non escludere niente disse lei. Tanto poi ci pensa la vita a escludere» (p. 145)
Anche il linguaggio serve sostanzialmente per coprire la verità: «Ma siamo ancora a questo!... che tu credi al linguaggio. Il linguaggio serve per difendersi, per aggredire, per ingannare e ingannarsi, non per capire. Tutto va reinterpretato…è un lavoro immane» (p. 177)
Ma più resiste la finzione, più cresce il cinismo, l'istinto distruttivo, il cupio dissolvi: «Hai notato che da giovani non si parla che di costruire?...E dopo non si pensa che a distruggere, pazientemente, senza trascurare nulla, e non si fa neanche tanta fatica, perché tutto si sfalda tra le mani» (p. 77). Distruggere, in fondo, «Può essere anche una consolazione» (p. 114), quando si vive la vita da "morti": «Ma dimmelo che cosa è vero, per te... Io credo che tu li veda (gli studenti, i propri allievi - ndr) tutti morti». «Morti?» «Sì, morti, tu e loro, tutti morti. È questo il tuo senso dell’attualità» (p. 152)
Lo stesso rigore intellettuale, filologico, accademico, rimanda all'immagine della morte anziché della vita. Così tra professori: «Sono stanco del rigore, gli ho sempre sacrificato le idee migliori. Hai mai pensato che il rigore è cadaverico, rigor mortis?» (p. 40)
Letteralmente 'lapidaria' la descrizione del matrimonio: «…Mia moglie, quando eravamo entrati nella nostra stanza, dopo il viaggio di nozze, mi ricordo che aveva detto, sedendosi sul letto: “Ecco, adesso siamo sistemati”. E io mi ero subito visto in una tomba e tutti e due che la costruivamo, pietra su pietra. Da allora non ho pensato che a uscirne, almeno mentalmente» (p. 76).
Ma l'unica via d'uscita, in questo romanzo, sembra essere la morte (il suicidio): «Ci ha preceduto, non credi?»
... a volte, benedico con commozione il mio matrimonio... nonostante le fatiche, le liti, non mi sono mai sentito "sistemato"... è una cosa bella.
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